IO PERÒ NON HO SENSI DI COLPA

Caro Angelo,
ho disconnesso la chiavetta, sono uscito dall’aeroporto, ho visto, ho ascoltato. Ho telefonato a un gruppo di amici terroni emigrati. Uno per uno: non ho trovato sensi di colpa. La nostalgia non c’entra, giusto? Teniamola fuori perché appartiene alle emozioni. Allora le cose sono due: o ho una manica di amici infami, o non c’è nulla di male nel non sentirsi in colpa. Qui non si parla del dispiacere di vedere la tua terra che non marcia al ritmo della tua anima. Qui si parla di ragazzi, ragazze, giovani, non giovani, che hanno cercato una strada e se quella strada porta a Nord se ne sono fatti una ragione. Loro hanno più radici di chi non è partito, anche se sono wireless e globalizzati, se lavorano in una multinazionale che li ha cercati, trovati, presi, pagati, valorizzati. Sono sudisti dentro, cioè nell’unico posto dove uno sa davvero chi è. Chi parte, chi emigra non si gira dall’altra parte per non vedere i problemi. Non lo facciamo noi e non lo fa il mio collega Matthias che viene dal Trentino e scende a Sud per trovare quello che cerca.
Questa non è più la stagione dei terroni che s’aggrappano a qualunque cosa per tirare su due soldi. Io non ho paura perché l’ansia del nuovo emigrante sudista non è quella di partire, fare fortuna e sperare di tornare il prima possibile. Chi se ne è andato, l’ha fatto sapendo che magari non tornerà mai, ma non avrà lasciato davvero il suo mondo neanche per un giorno. I nuovi emigranti non raccontano la scusa della terra «amara e matrigna». Non hanno bisogno di nascondersi dietro una giustificazione, perché sanno di non aver tradito. Che cosa avrebbero dovuto fare? Restare in attesa di un dono? Cercare una raccomandazione? Aspettare un posto quale che fosse? Cioè quell’altra fastidiosa equazione: studio, mi laureo, poi qualcosa uscirà, anzi qualcuno mi aiuterà. I nuovi migranti, questi sì senza «e» perché vanno, vengono, si muovono, si fermano, si sono aiutati da soli. Se sono tanti, andiamone orgogliosi. Sono troppi? No, perché fino a quando non ce ne saranno altri, nessuno vorrà mettere mano a quello che non funziona. Serve una voglia matta di espatriare in massa per far capire che c’è un Sud che funziona e non s’accontenta. L’ultima chiamata per Terronia è la simulazione di una fuga per dimostrare che la speranza non è un posto, ma uno stato d’animo. Non si rinnega niente e non c’è nulla di male nel considerare la propria terra la migliore, il proprio sole il migliore, il proprio cibo il migliore, pur avendo scelto di rinunciarci per la gran parte dei giorni. Né piaggeria, né vigliaccheria. Io sono pugliese dalla mia scrivania di Milano, così come tu lo sei dalla tua di Roma, così come lo è il mio amico Michele dal suo ufficio della vetreria di Castellana Grotte. Uno sceglie e non ci sono paragoni: io e te, caro Angelo, non siamo migliori né peggiori di chi è rimasto. Non credo che il mio compagno di banco mi invidi perché io sto a Milano. Mi considera un pazzo, al massimo.
Il Sud ci ha dato tanto, non quel poco che aveva. Ci ha dato quello che siamo. Poi noi l’abbiamo capito e siamo andati: per noi stessi, per le nostre passioni, per il nostro futuro. I sogni non hanno latitudine.

Non abbiamo bisogno di passaporti per tornare, non dobbiamo chiedere permesso per guardare il nostro cielo e per parlare bene del Sud alla trattoria pugliese, siciliana o calabrese di Brera o Trastevere. Se ci commuoviamo, non dobbiamo vergognarci. Se poi ci svegliamo e andiamo a lavorare al Nord, non dobbiamo chiedere scusa a nessuno.

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