Ma guarda un po come cambiano le cose. Ieri il nuovo album degli Iron Maiden, The final frontier, ha debuttato al primo posto della classifica italiana, è in testa in altre diciannove nazioni (dallArabia al Cile alla Svezia), negli Usa va benone e ora tanti critici si dannano lanima per applaudirlo. Strano. Anni fa le critiche autorevoli (spesso delle stesse firme di oggi) finivano per diventare un macello nel quale gli aggettivi meno sanguinari erano «kitsch», «folcloristici», «buzziconi». Ora invece il contrario o quasi. E dire che gli Iron Maiden (debutto nel 1980, ottanta milioni di copie vendute) sono sempre stati coerenti in tutto, anche nei cali di ispirazione.
Insomma, per usare un paradosso che piace tanto, suonano la stessa canzone da decenni, un rock non proprio metal ma assai robusto, talvolta malinconico e spesso epico e ombroso, con punte alte come 22 Acacia Avenue, Rime of the ancient mariner (ispirata a un poemetto di Samuel Taylor Coleridge), The evil that men do e persino il primo singolo, il ruspante, forsennato, utopico Running free: «Ho solo sedici anni, una strada davanti, senza soldi e senza fortuna, non ho un posto che posso chiamare mio, accendi il motore e andiamo». Quando si accendono, gli Iron Maiden hanno sempre le nervature sincopate del basso di Steve Harris, le chitarre come rock (inglese) comanda e una voce (sempre meno) potente che è un marchio di fabbrica: quella di Bruce Dickinson, aviatore per diletto. Daltronde sono gli ultimi testimonial vivi e non sopravviventi di quella New Wave of British Heavy Metal che, insieme ai new romantics, asciugò londata punk, fece passar al progressive rock la voglia di svolazzare e accese quella sarcastica nella critica.
E non sono gli Iron Maiden.
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