RomaUn esempio da non seguire. Magari non l’unico caso di cattiva gestione, ma quello dell’Irpinia e della Basilicata è comunemente accettato come il benchmark negativo delle ricostruzioni post sisma. Una pietra filosofale alla rovescia, capace di tramutare la generosa risposta ad un’emergenza umanitaria in un affare per la malavita, un comportamento virtuoso nel focolaio di un’infezione: dai tagli alle spese, all’esplosione delle stesse.
Quando dopo Pasqua il governo scriverà il decreto Abruzzo avrà ben presente una recente relazione della Corte dei conti che denuncia le difficoltà che il terremoto del 1980 riesce a provocare ancora oggi. Finanziarie innanzitutto, se è vero che su circa 140 miliardi spesi negli ultimi 40 anni per ricostruire le zone distrutte dalle calamità naturali, quello irpino ne ha assorbiti fino ad oggi 32,3. Un conto destinato a crescere. Dal 1980 ad oggi quasi tutte le leggi finanziarie hanno un richiamo al terremoto che ha segnato generazioni di italiani. Si parte dai 3,7 miliardi di euro dell’81 al picco di dieci miliardi nel 1988 ai più recenti 157 milioni stanziati nel 2007 e che continueremo a pagare fino al 2010 e oltre. Il tutto per finanziare misure per le infrastrutture, per l’occupazione e lo sviluppo economico dell’area colpita dal sisma; tutte di efficacia nulla. Già nel 1990 la commissione parlamentare d’inchiesta sul terremoto arrivò alla conclusione che il corrispettivo in lire di 29 miliardi di euro era finito in fumo. La ricostruzione non c’era - e non c’è stata - se non nelle tabelle delle leggi di bilancio che, puntualmente, ogni anno stanziano milioni per un’emergenza diventata cronica.
Ma quello che colpisce di più, a quasi trent’anni di distanza, sono i meccanismi che continuano a gonfiare la spesa per un terremoto che un paio di generazioni di elettori non hanno visto. Archiviati - si spera - comportamenti malavitosi, ad essere fuori controllo oggi sono le spese per il contenzioso. Lo Stato, in sostanza, non onora impegni presi e il tutto si traduce in un ulteriore aggravio per le casse pubbliche, a beneficio di imprese che fanno causa e degli avvocati.
La «perdurante riduzione degli stanziamenti sui capitoli del bilancio statale, conseguente alle generalizzate politiche di contenimento della spesa», osservano i magistrati contabili, provoca un ritardo nei «pagamenti delle somme dovute per spese di giustizia con il rischio di fare lievitare i relativi oneri per le richieste di interessi di mora da parte dei creditori». Effetti di una gestione che, nella migliore delle ipotesi, è stata opaca, si fanno quindi sentire ancora oggi. Pesano sulle casse dello Stato e sottraggono risorse alle altre emergenze. Non è un caso che una delle prime preoccupazioni al Consiglio dei ministri di ieri sia stata quella di definire meccanismi trasparenti e puliti per il finanziamento e la realizzazione della ricostruzione, individuata dal governo nella parcellizzazione degli interventi e nel monitoraggio continuo da parte del ministero dell’Economia. Anche l’intenzione di suddividere i lavori in 100 lotti e di affidarli alle province serve a evitare due tipi di gestione dell’emergenza che si sono rivelati entrambi fallimentari; quello centralista - tutto passa per Roma - e quello che fa passare i soldi solo per i poteri locali.
Con l’imperativo di fare presto. La casistica delle ricostruzioni infinite, infatti, non conta solo il sisma campano. Il Belice ancora fa capolino nella contabilità nazionale, a quaranta anni dal sisma. Il totale dei soldi pubblici stanziati per la ricostruzione fa meno impressione rispetto a quello dell’Irpinia. Appena sei miliardi di euro. Colpisce semmai il calcolo fatto un paio di anni fa dal quotidiano economico Il Sole24 Ore su quanto tempo servirà a completare la ricostruzione: 116 anni. In questi 40 anni, la ricostruzione è arrivata al 70 per cento. Il resto si è perso per strada per colpa della burocrazia e della cattiva amministrazione.
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