«Il mio ragazzo è malato di cuore e ha bisogno che io gli sia vicino». Fin qui niente di male. «Chiedo perciò il Vostro permesso di poterlo raggiungere per vivere accanto a lui». E anche qui poco da dire. Permesso accordato, venga pure senza problemi e si fermi quanto le pare. Sembrerebbe una storia come tante, anche se sullo scenario di una guerra senza fine. Invece è una specie di piccolo miracolo. Perché il ragazzo che ha spedito la struggente richiesta scritta è un palestinese di 33 anni che vive nel campo profughi di Jenin, una delle zone più infuocate della Cisgiordania. Perché luomo che doveva decidere del suo futuro è nientemeno che il generale Yosef Mishlav, coordinatore delle attività del governo israeliano nei Territori, un pezzo grosso, un uomo tutto dun pezzo. E perché il suo fidanzato da otto anni è un ingegnere di 40 anni, israeliano, che vive a Tel Aviv. Cioè un amore gay.
Non era mai successa una cosa del genere. E cioè che un gay palestinese fosse autorizzato dalle autorità militari israeliane a trasferirsi a Tel Aviv per poter restare vicino al suo compagno israeliano. Un permesso speciale, spiegano i militari, rilasciato solo ed esclusivamente «per ragioni umanitarie». La domanda a dire la verità non è nuova, erano almeno cinque anni che i due chiedevano con insistenza il ricongiungimento, ma la risposta era sempre stata negativa. Fino a ieri. Non che in Israele gli omosessuali siano molto ben visti, lo scorso novembre per esempio il Gay Pride in Israele scatenò la rivolta degli ultra-ortodossi, che si scontrarono con la polizia, lanciano pietre e bruciando cassonetti per protestare contro una manifestazione considerata blasfema. Ma i diritti dei gay in Israele restano più che tutelati. Non altrettanto si può dire per la Cisgiordania dove lomosessualità è considerata peccato mortale dalla maggioranza musulmana che non ha mai risparmiato violenze, come denuncia Rauda Morcos, attivista palestinese per i diritti umani, a gay e lesbiche solo per essere quello che sono.
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