Luciano Gulli
nostro inviato a Gerusalemme
Nei caffè di Ramallah e nelle botteghe che si allargano a raggiera intorno alla piazza dei Leoni, ieri mattina si discuteva molto di denari. Dei denari che non ci sono; di quelli spariti nelle tasche degli apparatchik dell'Autorità palestinese (qualcosa come 580 milioni di euro, stando al procuratore capo di Gaza, Al Moghani); e di quelli che Israele ha infine deciso di scongelare, consentendo così il pagamento degli stipendi alla elefantiaca burocrazia palestinese che nel suo piccolo (su una popolazione stimata di 3 milioni e mezzo di persone) annovera oltre 130mila impiegati.
Nessuno, naturalmente, nei caffè e sulla soglia delle botteghe che si allargano a raggiera intorno alla piazza dei Leoni, ha sollevato l'aspetto più antipatico connesso alla sarabanda di denari che vanno e vengono da Gaza e dai confini dei Territori: parliamo di quelli che l'Autorità deve a Israele, e che a Gerusalemme vedranno, se mai li vedranno, a babbo morto.
La notizia di giornata, in sé non è neppure una notizia. Ma la vidimazione notarile di una decisione che il governo di Ehud Olmert aveva già preso nei giorni scorsi. Sono 200 milioni di shekel (oltre 35 milioni di euro) che Israele ha raccolto il mese scorso dalle tasse e dai dazi doganali relativi alle merci in transito verso i Territori. Denari che Israele, in virtù di un vecchio accordo con l'Anp, raccoglie direttamente per poi girarli agli aventi diritto.
Il loro versamento nelle casse palestinesi era stato congelato dopo la vittoria elettorale di Hamas. Ma poiché la proclamazione del nuovo governo è ancora di là da venire, e visto che senza quei denari a Ramallah e dintorni non saprebbero come sbarcare la mesata, il governo ieri mattina ha deciso di dar retta al ministro della Difesa e ai capi dei servizi segreti, che spingevano, per motivi di ordine pubblico, per il defrost dei soldi.
A rigore, sono denari che Israele avrebbe potuto trattenere per sempre. Visto che vanta crediti, nei confronti dell'Anp, di gran lunga superiori alla somma in viaggio verso i Territori. Crediti sostanzialmente inesigibili, di quelli che in sede di bilancio compaiono alla voce «perdite». Il caso della Israel electric corporation è esemplare, al riguardo. La Iec è l'Enel israeliana che fornisce energia a Gaza e ai Territori in base a un accordo firmato fra le due parti nel 1995. Quel protocollo prevedeva che le squadre di manutenzione (e gli esattori incaricati di prelevare i soldi delle bollette) avessero via libera nel «territorio comanche». Ma naturalmente, fra un'Intifada e l'altra, non se ne è mai fatto nulla. Da allora, l'Iec si limita alla manutenzione della rete fino all'ingresso delle città palestinesi. Di qui in avanti, è l'«Enel» araba che provvede alla bisogna. C'è un piccolo particolare: la maggior parte dei palestinesi non paga le bollette. E siccome il circolo in questi casi è vizioso, l'Autorità palestinese non paga l'Iec, che attualmente vanta un credito di quasi 40 milioni di euro. Di tempo in tempo, Israele ha trattenuto parte del denaro prelevato dalle tasse e dall'Iva spettanti ai palestinesi per girarlo ai creditori. Ma la minaccia della bancarotta sempre pendente sul capo dell'Anp ha indotto gli israeliani a chiudere un occhio (e spesso tutti e due) sui debiti dei «vicini».
Un altro capitolo bollente riguarda i soldi (e parliamo di altri milioni di euro) che i palestinesi dovrebbero versare nelle casse della «Mekorot», che fornisce acqua potabile; della «Bezeq», per i servizi telefonici; delle aziende che garantiscono l'efficienza dei ponti radio per i cellulari; di alcuni ospedali messi in piedi da imprese di Tel Aviv e via discorrendo.
Nel 2002, alle prime avvisaglie della seconda Intifada, Yasser Arafat ordinò esplicitamente alle banche palestinesi di congelare ogni pagamento diretto verso Israele. Le grandi compagnie, come la «Iec» e la «Bezeq» (che minacciavano bancarotta a loro volta) hanno avuto di tempo in tempo qualche boccata d'ossigeno dal governo, che ha prelevato con pinzette da manicure qualche pacchetto di dollari di quelli in transito verso Ramallah. Ma le altre aziende con meno voce in capitolo, per non dire dei privati, sono rimasti a bocca asciutta.
Da allora, i palestinesi hanno navigato a vista. Tra promesse di pagamento, «cambiali» non onorate, pagamenti parziali.
Che succederà - si domandava l'altro ieri il Jerusalem Post - quando al potere saliranno quelli di Hamas? Tanto per cominciare, suggeriva acido il giornale, sarà meglio che i palestinesi si rivolgano ai loro «sponsor» arabi per chiudere la partita dei debiti e per farsi dare quel che finora hanno avuto da Israele. Perché non pagare le bollette al Paese che si intende distruggere, ha anche un certo senso logico, visto da Gaza. Visto da Gerusalemme fa ridere meno, ecco.
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