Gian Micalessin
Una fragile vita, un volto da bimbo in divisa, un paio d’occhiali da secchione ferma i carri, fa tremare i suoi carcerieri, angoscia i capi d’Israele. Fate morire il caporale Gilad Shalit, è tutto finirà. La partita lascerà spazio alla guerra, la trattativa silenziosa alla vendetta, il governo di Hamas al silenzio del nulla. Tutto è pronto. I carri armati Merkhava circondano la Striscia pronti a divorarla, le motovedette pattugliano le coste, gli obici semoventi puntano gli obbiettivi, gli elicotteri e le forze speciali preparano i piani per eliminare uno dopo l’altro i capi fondamentalisti. L’assedio è già compiuto. Il premier Ehud Olmert non cerca neppure di nasconderlo. «Abbiamo sigillato Gaza dalla terra e dal mare, ho ordinato ai nostri comandanti militari di preparare l’esercito ad una vasta e prolungata operazione per colpire i capi del terrorismo e chiunque risulti coinvolto. Non ci sarà immunità per nessuno». Parole dure, decise, ma per ora sospese nell’aria assieme alla vita del caporale Shalit. Chi l’ha preso sa di essersi portato a casa una torta avvelenata. Una bomba umana troppo difficile da maneggiare. Ma quel ragazzo di 19 anni da preservare, scambiare, barattare è anche l’unica possibilità di salvezza. Olmert giura di non voler trattare, di non voler concedere nulla in cambio della sua vita. «Il rilascio dell’ostaggio deve esser incondizionato ed immediato» ricordano i portavoce del ministero degli esteri israeliano. Ma tutti lo sanno, in questi casi il negoziato è quasi automatico. Doveroso. Se non altro per prender tempo. Per cercar di individuare il nascondiglio, la tana dei sequestratori.
Intanto loro, i capi militari di Hamas, dei Comitati di Resistenza Popolare e del semisconosciuto Esercito Islamico devono inventarsi una partita diplomatica in cui Israele possa concedere qualcosa senza perdere la faccia. Devono buttare lì una richiesta accettabile. Guadagnare tempo nella speranza che gli informatori non regalino ad Israele la chiave di volta. Ci provano con le donne e i bambini. Chiedono la liberazione delle 95 donne palestinesi e dei 313 ragazzi sotto i diciotto anni prigionieri delle carceri israeliane. «Gli occupanti non riceveranno alcuna informazione sul loro soldato se prima non assolveranno queste richieste liberando donne e ragazzi palestinesi di meno di 18 anni» recita il «Comunicato militare numero» uno firmato dai tre gruppi. Fa discutere la sibillina precisazione di un portavoce dell’ala militare di Hamas secondo cui il comunicato non significa che il caporale Shalit sia detenuto da loro. Parole che fanno tremare. Il ragazzo camminava, ma era ferito. Forse allo stomaco. Passare informazioni non significherà far ritrovare il cadavere? Per ora tutti giurano sia ancora vivo. Un alto ufficiale dell’intelligence israeliana riferisce alla Knesset che il caporale è detenuto a Gaza dall’ala militare di Hamas e risulta ancora in vita. L’ipotesi di una sua scomparsa prematura fa tremare molti palestinesi. «Se il soldato rapito non ci sarà riconsegnato incolume ci assicureremo che il governo di Hamas cessi di operare» garantisce il capo dello Shin Bet Yuval Duskin durante un colloquio con il presidente palestinese Abu Mazen. «Lavoriamo per portare a casa Gilad, ma non abbiamo intenzione di negoziare con Hamas uno scambio di prigionieri» garantisce Haim Ramon un ministro della Giustizia considerato il ventriloquo di Olmert. Ma intanto a negoziare per Israele ci provano i diplomatici di Parigi. Quel ragazzo ha sangue e passaporto francese e gli uomini di Parigi lavorano in queste ore nella Striscia accanto agli esperti egiziani e ai mediatori di Fatah. Qualcuno dei diplomatici azzarda addirittura di conoscere il luogo in cui è detenuto, riferisce di star trattando con Ahmad Jaabri e Ahmed Randor due capi delle Brigate Ezzedin Al Qassam nella Striscia che, aggiunge, avrebbero promesso un buon trattamento per l’ostaggio. Ma quell’attacco e quel rapimento deciso dall’ala militare ha diviso, lacerato la formazione fondamentalista, reso esplicite le devastanti divisioni tra Ismail Haniyeh da una parte e la dirigenza siriana in esilio a Damasco.
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