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Gli israeliani: «Ci hanno attaccato, abbiamo sparato per difenderci»

nostro inviato ad Haifa

La guerra irrompe con la sua forza irragionevole nelle case di tutto il mondo. Almeno dieci morti, ma le vittime potrebbero essere diciannove. Sessanta i feriti. Tre navi militari israeliane salpate dal porto di Haifa domenica sera per raggiungere le acque al largo di Gaza e bloccare sei imbarcazioni, di cui tre turche, della flottiglia di attivisti filo palestinesi Freedom, decise a forzare il blocco delle acque disposto da Israele intorno alla Striscia di Gaza. A bordo settecento passeggeri in arrivo con un carico di aiuti umanitari dall’Europa, dall’America, qualcuno anche da Israele. Manovre da battaglia navale, poi il combattimento. Forze diseguali, esercito contro contestatori. A terra rimangono molti morti degli attivisti delle barche, tra i soldati israeliani si parla di sette feriti, due in condizioni critiche. Sarebbero incolumi i quattro italiani che erano a bordo delle navi, che secondo esponenti di Forum Palestina sarebbero stati arrestati.
La tensione è alle stelle da parecchi giorni. I soldati chiedono di controllare il carico, sono convinti che ci siano delle armi, a bordo si rifiutano, i soldati spingono perché la flottiglia faccia rotta su Ashdot, porto poco lontano, assicurano che gli aiuti umanitari saranno consegnati via terra. Ancora un rifiuto, la decisione di procedere nell’azione dimostrativa verso Gaza. Gli israeliani tentano il blitz, le versioni diventano diverse, tragicamente opposte. «I contestatori hanno dato il via alla violenza» racconta Mark Regev, portavoce del premier Benjamin Netanyahu, costretto ad annullare un incontro a Washington con il presidente americano Barack Obama e a tornare precipitosamente a Tel Aviv. Un militare sarebbe stato disarmato e attaccato da dieci persone che hanno tentato di prenderlo in ostaggio e pare che questo abbia scatenato la tragedia. Le barche degli attivisti guidati dal Free Gaza Movement e dall’organizzazione turca Insani Yardim Vaksi sono ferme nel porto di Ashdot. Fanno parte di organizzazioni umanitarie ma secondo il governo israeliano, che parla per bocca del ministro degli Esteri, Danny Avalon, «avevano a bordo armi preparate in anticipo e usate contro il nostro esercito». I combattenti che battono bandiera bianca raccontano tutta un’altra storia e le piazze arabe di Israele minacciano rivolta, «una nuova intifada» come promette qualche esponente islamico da Gaza. Per le strade sono in tanti a temere che «si torni al 2000». L’ospedale Ramban di Haifa raccoglie i feriti in arrivo via mare, qualcuno in manette accompagnato dalla polizia che lo scorta fino al pronto soccorso. Le proteste si diffondono, anche se tra la gente prevale un senso di stanchezza per una guerra che sembra infinita. «Nel Medio Oriente ci sono già abbastanza tensioni interne senza che le portino da fuori» si sfoga un paziente comune appena uscito dall’ospedale. Haifa è la città se non dell’integrazione almeno della convivenza meno difficile, ma gli scontri in strada si sono scatenati anche qui, tra gli studenti ebrei e arabi che di solito condividono le stesse aule dell’Università e adesso si prendono a botte nei cortili del palazzo. Nei tafferugli è rimasto ferito anche un poliziotto.
Il presidente palestinese, Abu Mazen, dalla Cisgiordania dichiara tre giorni di lutto nazionale e oggi partirà uno sciopero di protesta di tutte le attività commerciali della comunità araba di Israele. Abu Mazen denuncia «un massacro» e dichiara tre giorni di lutto nazionale. I toni si fanno altissimi e raccontano punti di vista inconciliabili. I dirigenti di Hamas parlano di «crimine» commesso da Israele. Il ministro degli Esteri israeliano, Danny Avalon, parla di «armata dell’odio e della violenza», «provocazione premeditata e oltraggiosa», di legami con la Jihad, con Al Qaida e Hamas. Conclude: «Un intento violento, metodi violenti e risultati tristemente violenti».
È un bollettino sconvolgente anche per una terra abituata a scontri frequenti e vittime continue. Il governo israeliano ha invitato i suoi cittadini a lasciare la Turchia, Ankara richiama gli ambasciatori. In Israele è stato dichiarato lo stato di allerta nella zona del Wadi Ara, a nord di Tel Aviv. Questa volta l’eco è enorme, gigantesca, perché rimbalza in case abituate a pensare al conflitto tra arabi ed ebrei come a qualcosa di drammatico e lontano.

Invece oggi è guerra vicina, con i suoi morti nelle famiglie di tutto il mondo.

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