Italia, tutto il viaggio è Paese

Un saggio di Attilio Brilli sulla tradizione del Grand Tour nel nostro Paese. Il decalogo di Bacon, gli ozi di Goethe, le passioni di Madame de Staël...

Non si sa se definire questo rinnovato Il viaggio in Italia di Attilio Brilli (il Mulino, pagg. 478, euro 25) una sua raggiunta summa storico-filosofica, troppo vibrante però per essere solo una rassegna di modalità, moventi e presupposti del viaggio attraverso i secoli, oppure se considerarlo una lunga lettera d’amore nei confronti della polimorfa, iniziatica esperienza e del genere letterario che le compete, troppo piena però di documenti, attestazioni, nessi e rimandi, per essere governata dal solo sentimento. La spiegazione sta forse nella non comune capacità di Brilli di fondere queste due dimensioni, che unita qui all’intento di offrire «una rappresentazione d’insieme» delle molte testimonianze e trattazioni possibili, settoriali o generiche che siano, ha come esito un’opera davvero completa, al cui interno l’energia conduttrice non può essere che una singolare passione per il tema.
Francesco Petrarca è forse il primo viaggiatore moderno, egli anticipa quella itinerante curiosità intellettuale che si è soliti far risalire a Michel de Montaigne e al suo Voyage d’Italie. Nel 1333, il poeta parte da Avignone, va a Parigi, visita le Fiandre e il Brabante, si spinge ad Aquisgrana dove s’immerge nei famosi bagni, passa a Lione e poi, imbarcatosi sul Rodano, scende il fiume sino alla foce. Di segno ormai moderno è in lui il senso topografico e pittorico che si disgiunge dalle suggestioni della visione allegorica, come quando descrive l’arrivo a Genova dal mare, o il profilarsi all’orizzonte di Padova e di altre città, o quando racconta l’ascesa al monte Ventoso, considerata la prima descrizione panoramica del paesaggio nella cultura occidentale.
La diffusione dell’idea del viaggio italiano presso i ceti dominanti dei rispettivi Paesi si deve a molte figure rappresentative fra Cinque e Seicento: da Sir Philip Sidney, diplomatico elisabettiano, a Francis Bacon, entrambi sostenitori della valenza didattica del viaggio in Italia, il Bacon arrivando a prescriverlo nel suo decalogo degli obblighi ai quali dovrebbe adempiere sia il giovane sia l’attempato viaggiatore; da Montaigne, che sembra avere lì la conferma della pluralità e contingenza della natura umana, a François Rabelais, osceno per la Sorbona e transfuga felice a Roma, protetto da prelati illuminati; da Thomas Hobbes che coltiva l’amicizia con Galileo a Pisa, a John Evelyn che registra nella parte italiana del suo Diario informazioni preziose. Per il viaggiatore contemporaneo di Montaigne l’Italia non rappresenta quel fascinoso scenario di arcaicità e fastosa decadenza che sedurrà il viaggiatore romantico, e ancora cent’anni dopo (ma è forse il caso limite) il potente ministro delle Finanze del Re Sole, Colbert, è molto chiaro nelle istruzioni che, in una famosa «Lettera», assegna al figlio in procinto di partire: occorre trarre profitto dal viaggio osservando gli usi, i costumi e i differenti corsi politici di un Paese tanto importante; informarsi su nomi e funzioni delle famiglie nobili, indagare sull’effettivo potere di chi governa, sull’influenza del Papa nei vari stati.
Con il Settecento, un’aria nuova soffia attraverso l’Europa. I Colbert non ci sono più. Il Seicento si chiude con un ministro di una monarchia assoluta, il Settecento si apre con il padre del giornalismo, Joseph Addison. Anche se egli è intento soprattutto ad analizzare gli statuti libertari della Serenissima o quelli della Repubblica di San Marino, il salto culturale, il clima e il gusto, paiono totalmente mutati. E intanto compaiono anche altre figure nuove, come quella del conte di Burlington, che istituzionalizza la pratica del collezionismo britannico di opere d’arte italiane; e cominciano a diffondersi le forme di un nuovo «sentimento» del viaggiatore, meglio disposto a lasciarsi coinvolgere emotivamente (culturalmente) da ciò che le persone e le cose incontrate gli ispirano, più pronto a recepire le suggestioni degli scenari che si parano davanti ai suoi occhi, l’ansa del fiume, il grotto inaspettato, il profilo magico di Orvieto, la pieve isolata, i resti dell’acquedotto romano, la visione improvvisa dei templi di Paestum.
La consuetudine del viaggio in Italia coinvolge un numero sempre più grande di aristocratici, di borghesi ricchi, di squires. Nel giro di qualche decennio, tra 1760 e 1780 non c’è viaggiatore inglese che non s’infastidisca dei troppi compatrioti presenti a Firenze, Venezia, Roma e Napoli. Un esercito di turisti inglesi, francesi, tedeschi, olandesi, russi e scandinavi ormai percorre le strade d’Europa, e non viaggiano tutti con al seguito il cuoco, il medico, il pittore di paesaggi e lacchè vari (Burlington poteva contare su una quindicina di persone al suo servizio), perché vi sono quelli che hanno con sé un bauletto, o il frugale bordone del pellegrino. Al momento di aprire i bagagli sotto gli occhi del doganiere, viaggiatori come Goethe, già un abbiente, o come i due instancabili camminatori, il poeta tedesco Johann Gottfried Seume o l’americano James Bayard Taylor, hanno da mostrare solo camicie, qualche indumento di ricambio e un po’ di libri.
Se in Edward Gibbon, il grande storico della decadenza e caduta dell’impero romano, l’esperienza formativa del viaggio in Italia è talmente scontata che non avrebbe bisogno di essere ribadita, distanze enormi sembrano crearsi, anche nel giro di pochi anni, nelle fisionomie e nei caratteri dei viaggiatori. Gibbon da un lato conserva una radice baconiana e dall’altro prelude all’imperturbabilità di Goethe (che tutti riassume), Laurence Sterne nel Sentimental Journey mette in bocca al suo ironico protagonista, Yorick, l’insofferenza per gli obblighi scientifici, topografici e museali, per favorire invece gli incontri fortuiti e le soste occasionali, invitando in fondo «ad amare il mondo e i nostri simili». E ancora nuove figure si fanno presenti nello scenario del viaggio: le donne. Da Madame Du Bocage a Lady Mary Wortley Montagu, via via fino a Lady Morgan, Madame de Staël, e a Lady Blessington, troppo distratta, a Genova, per descrivere la città, a causa degli estenuanti tête à tête con Lord Byron.
Ciò che affascina nel libro di Brilli è il tratteggio fisiognomico del viaggiatore inserito nel suo tempo: ecco perché questo libro diventa un contributo alla storia sociale, alla storia delle idee, alla storia materiale.

Anche quando descrive i vari aspetti del viaggio (la preparazione e il corredo del viaggiatore, le strade e i mezzi di trasporto, gli alberghi e le locande, i letti e gli insetti, i cibi, tutti gli inconvenienti o i colpi di fortuna cui il viaggio espone), la figura del viaggiatore vi è sempre presente, insieme alla sua caratterialità: il distacco di Addison, l’accidia di Sharp, la reticenza del marchese de Sade, l’umor nero di Smollett, la vanagloria di Boswell, le allucinazioni di Beckford, i furori di Winckelmann, giù giù nella galleria dei viaggiatori in Italia che si distende nel tempo, attraverso Hippolyte Taine, Charles Dickens, Henry James, Edith Wharton, Aldous Huxley, fino agli indecorosi tic dei turisti di massa, e ai «rancorosi sarcasmi e dolenti invettive nostrane che vanno da Carlo Emilio Gadda, a Cesare Brandi, a Guido Ceronetti».

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