Il Jammin’, antidoto collettivo all’ipod: prima gli Aerosmith, poi l'acquazzone

Nell’epoca solitaria di cuffie e mp3, l’Heineken Festival di Mestre riunisce oltre centomila persone in quattro giorni E assicura sorprese: gli Aerosmith sembrano tornati giovani. Ieri un temporale ha fatto annullare lo show dei Green Days

Il Jammin’, antidoto collettivo all’ipod: 
prima gli Aerosmith, poi l'acquazzone

Mestre - Ma nemmeno un minuto, molto meno. Giusto qualche secondo ed è stato subito chiaro perché la musica continui a essere un rito collettivo sempre così imponente. Quando sabato sera gli Aerosmith hanno iniziato il loro show all’Heineken Jammin’ Festival, i venticinquemila in platea hanno spedito sul palco una bordata di energia selvaggia e gioiosa, un abbraccio che non ci sono parole, qualcosa che è realmente lo stupefacente del rock. E il pubblico - tra l’altro di ogni età - non era soltanto entusiasta perché aveva finalmente di fronte uno dei gruppi più famosi di sempre, centocinquanta milioni di dischi venduti, una vita gonfia di eccessi e alcuni brani come Walk this way, Dream on, Sweet emotion o Ragdoll che hanno fatto storia. Era festoso anche perché, nonostante un caldo africano e le zanzare a mitraglia, si sentiva parte di un rito collettivo che ha un solo scopo: il divertimento attraverso l’ascolto. Mica poco. Anzi, negli anni dell’ascolto solitario (talvolta persino onanistico) della musica, attraverso cuffie o computer, è un importante segnale in controtendenza. Perciò l’Heineken Jammin’ Festival, che risorge dopo un anno di letargo e che due anni fa era stato devastato da una tromba d’aria (155mila biglietti rimborsati sull’unghia), garantisce alla musica quel ruolo decisivo che dovrebbe sempre avere, ossia essere un collante di emozioni. Certo ci vogliono le band giuste perché il rock è quel mondo pieno di tanti scintillii diversi, di esagerazioni e pacchianate ma ha una sola regola: se scrivi belle canzoni e le sai suonare bene, resisti. Altrimenti arrivederci.
E gli Aerosmith, con uno Steven Tyler stellare nonostante i sessantadue anni e più botulino di Liz Taylor, resistono da quarant’anni a bordo di canzoni piene di viziosità e di tracce rhythm’n’blues che sul palco diventano irresistibili, gigione, sensualissime. E difatti, commenti alla mano, sabato sera nessuno è uscito deluso dai settecentomila metri quadrati del Parco San Giuliano. E così è stato ieri sera nonostante l’improvviso annullamento del concerto dei Green Day dopo un violento nubifragio che ha impedito l’esibizione. Erano appena scesi dal palco i 30 Seconds to Mars, Editors e via via tanti altri, compresi pure i pivellini Bastard Sons of Dioniso. Piccola sorpresa: i possessori del biglietto per i Green Day (anche se strappato) potranno entrare oggi senza pagare per lo show dei Black Eyed Peas, che sono forse il gruppo in questo momento più popolare del mondo. E domani, poi: le stelle, dopo Ben Harper, Skunk Anansie, Gossip e i ruvidi australiani Wolfmother, saranno i Pearl Jam, gente che sa suonare un rock a metà tra il post grunge e Neil Young e che, senza troppa fuffa promozionale, attirerà al Jammin’ almeno quarantamila persone (biglietti ancora in vendita).

In poche parole, alla fine dei quattro giorni saranno passate da qui almeno centomila persone per la gioia anche degli albergatori (ospitalità cresciuta del 35 per cento rispetto alla media stagionale) e di quanti, compresi gli amministratori locali, si ritrovano un enorme flusso pacifico in un periodo solitamente meno affollato e redditizio. Il tutto, bisogna ammetterlo, è frutto anche della caparbietà della Live Nation di Roberto De Luca che non si atteggia a filantropo ma è un signor manager che, dopo nove anni a Imola, ha portato qui un Festival da sei milioni di euro superando guai mica da ridere in una fase appiedata dal crollo degli investimenti e da una discografia alla canna del gas. E forse l’unica via era proprio questa: trasformare un evento esclusivamente musicale in una festa che ha come focus centrale la musica, ovvio, ma è trasversale e multitematica. In poche parole, in un’area che ha standard organizzativi di livello europeo (e pure la pulizia non accetta critiche, bisogna ammetterlo) se non hai voglia di ascoltare (ad esempio) gli Skunk Anansie o i Cranberries, puoi giocare a calcetto, a pallavolo o a basket, andare in spiaggia (ombrelloni compresi), fare tatuaggi, giocare a gavettoni d’acqua nella Water war area o persino salire sugli autoscontri e poi andare al ristorante. Sembra banale o quasi fieristico.

In realtà è una tendenza che si è già consolidata in altre parti d’Europa e che arriva dalla notte dei tempi del rock perché, mutatis mutandis, anche Woodstock a modo suo è stata così, trattando la musica per quello che realmente è: il perno intorno al quale far girare emozioni (e pensieri e amarezze e speranze).

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