Gli altri, i non appartenenti al primo partito d'Italia (se ve ne fosse uno che unisse gli oltre 13 milioni di tifosi juventini, questo vincerebbe a man bassa le elezioni), se la godono e ironizzano sull'irreversibile declino che ha colpito la squadra vincitrice di 29 scudetti sul campo. Dall’estate del 2007, quella del ritorno in serie A, la Juventus ha smesso di alzare trofei, contraddicendo il proprio codice genetico di predestinata e programmata a primeggiare, almeno in Italia. A sua parziale discolpa è certamente l’impossibilità a ricostruirsi in tempi brevi dopo il terremoto che ha voluto riscrivere la storia degli ultimi campionati in tribunale, ma è pur vero che proprietà e dirigenti hanno infilato una serie di errori a ripetizione mai vista in centotredici anni di gloriosa storia.
E siccome ai tifosi non si possono continuare a raccontare frottole, sarebbe bene ci spiegassero una volta per tutte perché è stato mandato via, dopo la promozione, uno juventino doc come Didier Deschamps, timoniere ideale verso la rifondazione, capace di vincere subito uno scudetto in Francia con il Marsiglia. Perché investire tanto sul progetto Ranieri (allenatore bravo ma non bravissimo) salvo sfiduciarlo sovrapponendogli di continuo il fantasma di Lippi. Perché cacciare via a malo modo dalla presidenza un ottimo dirigente come Giovanni Cobolli Gigli, tra i pochi a metterci la faccia nell’annus horribilis della serie B. Perché bruciare un inesperto come Ferrara facendolo passare per un Guardiola quando invece si trattava di una scelta al risparmio e perché poi recuperare l’improponibile Zaccheroni. Perché, infine, stracciare il precontratto con Benitez e optare per Del Neri, che suona da resa anticipata e conclamata già alla quarta giornata di campionato.
Per un’Inter così forte e consapevole dei propri mezzi, al punto da permettersi di rinunciare al mercato estivo, nella Juventus 2010-2011 si contano appena due campioni e mezzo. Il primo è l'immenso Alessandro Del Piero, 277 gol in bianconero a oggi, l’ultimo ad arrendersi, l'unico a lottare, abituato a sostituzioni cervellotiche quando se c’è uno che merita di giocare sempre questo è lui, nonostante le 36 primavere. Il secondo è Gigi Buffon, ma è rotto, non si sa quando tornerà, come e per quanto. Il mezzo è Giorgio Chiellini, la cui prestanza fisica e agonismo ne fanno un trascinatore, ma le frequenti amnesie ci lasciano più di un dubbio. E gli altri? Una grande promessa (Krasic), un paio di virgulti in attesa di maturazione completa (Bonucci, Marchisio), l’amletico Melo. Poi, poco o nulla, che non si può costruire una squadra vincente con le riserve del Liverpool, con un portiere arrivato al vertice oltre i trent’anni e che non sa respingere i palloni di lato; che senza qualità non si va lontani, nonostante l'abnegazione di ragazzi che escono stremati dai 90 minuti, che più di così non possono fare.
E allora? E allora soffrite in silenzio, suggeriscono gli interisti, tirandosi dietro negli sfottò la mezza Italia non juventina. E ci sarebbe ben poco da eccepire, non fosse che la nostra crisi corrisponde all’inarrestabile declino di tutto il calcio italiano. Non inganni la vittoria nerazzurra in Champions: quella è una corazzata multinazionale che di italico ha solo l’iscrizione di diritto al campionato, che se giocasse in Inghillterra o in Ghana sarebbe la stessa cosa. Campionato peraltro il nostro «francesizzatosi», l’Inter come il Lione, con una squadra troppo più forte delle altre, che gli unici traguardi disponibili fin da agosto sono i posti dal secondo al quarto.
Il problema invece è grave. Se la Juve stenta ne risentono tutti, in primo luogo la Nazionale. Dati alla mano, i protagonisti nel '78 al gran mondiale in Argentina erano bianconeri con indosso la maglia azzurra, un blocco compatto che ci porto alla vittoria nell'82. A Italia ’90 ci trascinano avanti i gol di Totò Schillaci, nel '94 ci tengono a galla quelli di Roberto Baggio. In quanto al 2006, i Del Piero, Camoranesi, Buffon, Cannavaro, Zambrotta & C. (per non dire di Lippi) giocarono con gli occhi della tigre dalla rabbia per quanto gli era stato tolto. Se oggi gli juventini in Nazionale mostrano evidenti limiti, ciò significa che il calcio italiano non riesce a compiere il salto generazionale.
Perché, a differenza di Inter e Milan, la Juventus ha sempre investito nel talento locale più che sulla star straniera, stimolando quel processo di identificazione tra il calciatore modello possibile e il pubblico, fin dagli anni ’70 e dai campioni operai venuti dal Sud. Per questo la Juve ha avuto sempre quella rabbia in più, quella tenacia sconosciuta ad altri, che le consentiva di supplire alla carenza tecnica.
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