Dal Kaiser a Diego Quando i fenomeni vanno in panchina

Beckenbauer Franz, Zagallo Mario, prima e dopo di loro, il diluvio. Bella la vita dei grandi calciatori: gol, parate, dribbling, premi, trofei, soldi, magari donne. Posto in squadra assicurato, titolare sempre, riserva mai. Poi, finite le partite, la carriera intendo, incominciano i dolori, si fa per dire, arriva il momento della grande scelta: sparire dalla scena, indossare l’abito da cerimonia dei dirigenti, entrare nella jungla dei procuratori oppure continuare a sentire l’odore dell’erba tagliata, quello antico dell’olio canforato, studiare le tattiche, passare dall’azione al pensiero, insomma provare a sedersi in panchina dirigendo il gioco ma senza toccare il pallone, spiegando invece come si fa, docenti davanti a una scolaresca spesso svogliata, incapace, incompetente, dunque una trappola nella quale il Campione rischia di scivolare. Diego Armando Maradona è l’uovo fresco di giornata, storiella romantica per i romantici, immagine da guardare in controluce per comprendere davvero la scelta della federcalcio argentina e l’avventura del campione che fu e dell’uomo che sta cercando di essere, seguito da un paio di badanti come Bilardo e Troglio. «Dicono che sono un ct senza esperienza? Beh, ho alle spalle più di vent’anni di nazionale... Io come Dunga? No: lui menava colpi, io dovevo schivarli».
Maradona insomma si infila nel corteo dei grandi calciatori che tentano di essere tali e quali da allenatori. La coda è lunga, moltissime le auto blu, i cognomi mettono nostalgia, l’album delle figurone è dorato ma i precedenti non suggeriscono ottimismo. Prendete Dino Zoff, numero uno assoluto del nostro calcio e mondiale, professionista simbolo non soltanto su un francobollo commemorativo di Spagna ’82. Da cittì della nazionale azzurra sbagliò l’uscita al campionato europeo del 2000, tradito all’ultimo secondo dagli errori dei suoi. Per restare in patria segnalo, con il magone, le esperienze di Peppino Meazza, prima, e di Silvio Piola, dopo, allenatori azzurri alle dipendenze di Beretta (Meazza) e di Czeizler e Schiavio (Piola), parentesi senza memorie.
Dovrei dire di Platini eccellente calciatore allenatore con Hidalgo e Michel un po’ meno come allenatore e basta, in una Francia di troppi galletti (Papin-Cantona), eliminata alla vigilia del mondiale di Italia ‘90. Un altro pallone d’oro ha dovuto fare i conti con le controindicazioni della panchina nazionale: Luis Miramontes Suarez, capace di dirigere il gioco del Barcellona e poi dell’Inter euromondiale ma non altrettanto gli schemi delle furie rosse, poco furiose e rosso pallido.
Restando tra i palloni d’oro Kevin Keegan è passato alla cronaca, più che alla storia, degli allenatori della nazionale inglese per le serate al tavolo da gioco, carte, poker e simili, con le quali si divertiva assieme ai suoi, prima e dopo le partite, senza un solo attimo di disciplina. Cosa che non si può addebitare a Oleg Blokhin, ex privilegiato del calcio sovietico (capello lungo, jeans e dollari in tasca ai tempi della Dinamo Kiev) ma poi rigoroso e rigido allenatore per quattro anni della nazionale ucraina per la prima volta qualificata ai mondiali. Marco Van Basten vive di rendita, la sua Olanda promette ma non mantiene, arriva sulla porta del paradiso e ritorna al via, come nel gioco dell’oca, il Milan era un’altra cosa. I tedeschi hanno perso per strada Völler e Vogts, quest’ultimo come valore negativo sulla panchina della Scozia, mentre resta un mito Franz Beckenbauer capace, insieme con il brasiliano Zagallo, dell’impresa doppia, campione del mondo da calciatore e da allenatore. Mario Zagallo fece fuori con il suo gol la Svezia nella finale della coppa del mondo ’58 e, in seguito, da allenatore della Seleçao andò a confermare per due volte il titolo di campione del mondo nel 1970 e nel 1994 (contro l’Italia, sempre). Zico ci ha provato con il Giappone, restando alla larga dal proprio Brazil pentacampeon (fece solo da assistente a Zagallo a Francia ’98, edizione sfortunata per i sudamericani), come Pelè che non ha mai voluto affrontare la carriera di allenatore, cosa che invece, in Sudamerica, prima di Maradona è toccata al grande nemico del “pibe”, Daniel Passarella, selezionatore della nazionale argentina al mondiale del 1998 e poi dell’Uruguay ma senza ottenere risultati di eccellenza.
Alfredo Di Stefano mantiene il record di presenze in tre nazionali, Argentina, Colombia e Spagna ma ha preferito rifiutare le offerte delle federazioni spagnola e argentina per guidare le rispettive rappresentative. Psicologi del football spiegano che il Campione non sa soffrire in panchina non avendo mai provato in campo, da mattatore, da Pallone d’oro, da protagonista, la delusione di un’esclusione, di novanta minuti tra le riserve, di una vita e di una carriera ai margini, con le mezze luci e dunque non può capire i tormenti e le paturnie di chi si ritrova alle sue dipendenze.

Diego Armando Maradona prova a smentire se stesso e la statistica, ha annunciato che sarà lui e soltanto lui a decidere la formazione. Sarà utile ricordargli quello che ribadiva un suo collega argentino: «Io scelgo i migliori e li dispongo bene in campo. Il problema è che poi si muovono». Suerte.

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