"Il kamikaze islamico un mio vicino di casa? Sembrava uno di noi"

I figli di Game frequentano la scuola nel quartiere. I genitori dei compagni: "Temiamo per i bambini". La convivente: "Non avrei mai pensato a un gesto del genere"

"Il kamikaze islamico un mio vicino 
di casa? Sembrava uno di noi"

«Ho paura e sono spaventata, ecco cosa penso. E questo fatto mi inquieta perché qui ci sono i nostri bambini. Chi ci assicura che la prossima volta non prenderanno di mira una scuola e magari proprio questa?». Patrizia, Silvia, Annalisa. Sono loro le mamme italiane della scuola elementare di via Carlo Dolci, la stessa dove sono iscritti i quattro figli di Giovanna e Mohamed Game, il libico che ieri ha fatto esplodere un ordigno rudimentale all’ingresso della caserma di via Perrucchetti. Sono loro che dopo aver sentito la notizia dell’attentato, a qualche isolato da qui, vogliono che si controlli di più la zona perché cose di questo genere non possono e non devono accadere, mai. A maggior ragione nel cuore del quadrilatero di San Siro, dove il kamikaze abitava insieme alla sua compagna italiana in una casa popolare in via Civitali, e dove la percentuale degli stranieri sfiora il 90 per cento. Come in questa elementare, un cartello scritto in arabo all’ingresso dell’istituto e i capi delle mamme coperti dal velo mentre aspettano i piccoli all’uscita. «Per carità i bambini non c’entrano niente, però quando si tratta di minori dovrebbero fare qualcosa di più».
Raccontano le mamme di via Dolci di aver visto spesso Giovanna M., la compagna di Mohamed, venire a prendere i bambini a scuola. Davide e Alessandro, i più grandi 10 e 9 anni, avuti dal primo marito italiano, frequentano la quinta e la quarta. Islam e Omar, invece sono i più piccoli, nati dall’unione con il libico. Dicono le mamme di via Dolci che tutti e tre i bimbi sono seguiti da un’educatrice. «C’era di mezzo il tribunale dei minori. Insomma, non era una situazione familiare semplice. Con quattro figli. Lei è un brava persona, faceva qualche lavoretto come donna delle pulizie e badante». Però lui, elettricista e con un’attività edile fallita due anni fa, non le è mai piaciuto. Troppo taciturno. Silvia ha due bambine in via Dolci, con Giovanna si erano conosciute all’uscita della scuola, erano diventate amiche e capitava che i loro figli giocassero insieme. «Le cose con il compagno non andavano bene. Mi chiedeva cosa doveva fare con Mohamed». Voleva lasciarlo perché lui non le permetteva nulla, non poteva fermarsi a chiacchierare con le amiche, non la lasciava uscire di casa. «Si stava rovinando troppo Giovanna, era anche depressa». Poi le cose hanno ripreso a funzionare e sono rimasti insieme. «Non riesco a capire come abbia potuto fare una cosa del genere, forse è stato solo per disperazione. Ecco, la verità è che era un disperato. So che aveva perso il lavoro».
Disperato, sì forse. Ma questa non può essere una giustificazione per un attentato. «L’avevo visto più di una volta bazzicare con quelli di viale Jenner, altri islamici. Era un tipo apparentemente tranquillo, troppo. Come se dovesse nascondere qualcosa. Intuivo che potesse fare qualcosa». L’ultima volta che hanno visto Mohamed al bar all’angolo tra via Civitali e via Paravia è stato sabato. «Veniva qui la mattina molto presto, si prendeva un pacchetto di sigarette e se ne andava» raccontano dietro il bancone. Vestito bene, con un abito in giacca e cravatta, poteva essere uno qualunque. Come dicono i suoi vicini di casa, i pochi che lo conoscevano. «Era una persona normalissima. Non sappiamo quello che faceva poi».


All’ingresso del civico 30 di via Civitali, ci sono due bambini con lo zaino in spalla. Stanno tornando da scuola, abitano qui anche loro e conoscono i figli di Mohamed. «I bambini avevano paura di lui. Invece la mamma era buona e generosa».

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