Eccolo, il figlio dell’elettricista, l’ultimo rimasto a parlarci di noi, quando perdiamo il lavoro, o lo cerchiamo ancora; quando il mondo, intorno, ci crolla e non c’è pub che tenga, ma lui sì, sa come raccontarti la storia del tuo sfruttamento e mantenerti lucido. Il regista Ken Loach, veterano della Royal Air Force e adesso omino secco di settantaquattro anni e cinque decadi di carriera (da Il pane e le rose a Il mio amico Eric, da Il vento che accarezza l'erba, Palma d'oro a Cannes 2006 a Route Irish, a marzo nelle nostre sale, distribuito dalla Bim) si è materializzato alla periferia est di Roma, tra i casermoni e le strade di Casal de’ Pazzi, nello stesso giorno in cui la major americana Warner Bros esibiva il regista Christopher Nolan, inglese pure lui, però piazzato a Hollywood, a fare cinema commerciale. Due mondi e un giorno solo. E infatti l’incendiario Ken, detto «la mosca rossa» dalla stampa britannica, che lo teme e lo ama per la sua tigna socialdemocratica, non è tipo da alberghi centrali di lusso. A lui piacciono le realtà suburbane, come le narra nei suoi schietti docufilm e, dopo la Tiburtina di Pasolini arriva la Tiburtina Valley del Centro di Cultura Ecologica sotto sfratto, che l’ha invitato a parlare del cinema di denuncia sociale. «I film di Hollywood? Stanno diventando monopolisti. È come se uno andasse in libreria e trovasse soltanto libri stampati negli Usa», attacca l’Ermanno Olmi britannico. Certo, Ken non è cattolico come il collega, col quale girò Tickets, ma la sua cultura laica guarda sempre al bisogno dei più deboli, esattamente come il primo Olmi (da I recuperanti a Il posto, film sulla via crucis d’un reddito possibile). «Per reagire al monopolio bisogna possedere le sale cinematografiche, creando rapporti con le piccole case di distribuzione dei vari paesi europei e con le tivù, in modo da “bucare” il totalitarismo del mercato cinematografico, consentendo l'uscita dei film indipendenti. Oppure, ci vorrebbe la nazionalizzazione del cinema, pensata nello stesso modo in cui l’Inghilterra ha nazionalizzato il teatro», spiega Loach, camiciola scura e pantaloni qualunque, da operaio della celluloide. Il 3D non lo entusiasma, il nostro cinema sì. «Il cinema italiano mi ha fatto diventare il regista che sono. In Inghilterra non si può più vedere tanto cinema italiano, visto che il mercato è dominato da Hollywood. Però ho apprezzato Gomorra - sottolinea il regista - che rivela una certa difficoltà a far accettare i suoi film alla Bbc, ultimamente. Per fortuna, c’è il calcio: dopo il successo de Il mio amico Eric, con Cantona nel ruolo di se stesso, Ken ha apposto il sigillo definitivo sulla sua passione per il football. «Credo nella forza del vero. E c’è molta verità nel gioco del calcio. I calciatori, spesso attaccati per gli alti ingaggi e per il loro stile di vita, sono gli ultimi eroi d’un mondo in declino. Adesso è molto difficile vivere in Inghilterra, perché il sistema costa troppo. Per questo gli stadi sono gli ultimi posti dove è ancora possibile divertirsi. Pensiamo a quanto è difficile coordinare i passaggi, i piedi con la testa, fare il gioco di squadra, senza mai confondersi. È vero che negli stadi, a volte, i tifosi esagerano. Ma sono i media ad amplificare la portata di certi avvenimenti: è colpa dei giornali se esistono gli hooligans», osserva lui, icona per i patiti del pallone. «Tifo per il Bath City, piccola squadra. Però ho seguito pure la Roma ai quarti di finale della Champions League. E quando vado allo stadio, penso soltanto al gioco». Tuttavia un pensiero gli occupa la mente. Si chiama privatizzazione. Nel suo ultimo dramma militare, presentato a Cannes (Route Irish), si agita la questione dei mercenari e della guerra quale affare lucroso per un pugno di privati.
«Non è un caso che i paesi abbiano la stessa agenda militare. Ci avevano detto che i conflitti, in Iraq, erano finiti e che le truppe si stavano ritirando. In realtà, lì ci sono ancora cinquantamila mercenari che combattono».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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