Politica

L’amnesia di Pier

Non erano necessari gli sciamani, gli efori o gli aruspici per immaginare che Pierferdinando Casini avrebbe confermato, sul palco congressuale della Nuova Fiera di Roma, che l'Udc è alternativa alla sinistra. Il modello di smarcamento del centro «alla Bayrou» qui da noi non va, e l'ovazione tributata due giorni prima a Silvio Berlusconi avrà convinto Casini che era meglio non menarla troppo con la storia delle «due opposizioni» a Prodi.
In coerenza con le premesse, nel suo discorso ha immaginato per l'Udc il profilo di un moderno partito conservatore: la difesa dei valori familiari attaccati dal «relativismo morale» e dalla sinistra che mischia l'Africa e il kennedismo, le liberalizzazioni, l'apologia della concorrenza, il patriottismo, l'università meritocratica, la laicità delle istituzioni, la richiesta di una «Chiesa scomoda» che si occupi più di fede che di assistenza sociale, l'uscita dal corporativismo «che deresponsabilizza il Paese», la lotta alle «rendite parassitarie» e all'evasione fiscale, l'europeismo che non si trasforma in antiamericanismo.
Nell'arringa casiniana ha trovato spazio anche la battaglia «contro i costi della politica»; il che, detto da un ex democristiano, fa ancora più effetto. L'Udc, insomma, si è candidata a essere il «partito delle istituzioni» e del senso dello Stato. Messa così la questione, per spiegare le polemiche che nei mesi scorsi hanno invelenito i rapporti tra l'Udc e gli alleati della Casa delle libertà risulterebbe difficile abbozzare qualche ipotesi diversa da un nudo gioco per la leadership del centrodestra.
Persino nei richiami alla politica internazionale Casini è stato consequenziale: «Se fossimo in Francia - ha detto - voteremmo Sarkozy», alleato nel Ppe ma soprattutto uomo forte della droite neogollista. Sabato Bruno Tabacci aveva paragonato l'ex presidente della Camera al giovane leader tory David Cameron (dimenticando, forse, le sue posizioni sui diritti civili). Ma sia Sarkozy che Cameron sono due campioni del bipolarismo, lontani che più non si può dalla filosofia politica del centrismo. E qui vengono le domande: manifesto dei valori a parte, che differenza c'è tra la «democrazia dell'alternanza» che piace a Casini e il «teatrino gladiatorio», come l'ha chiamato lui, del bipolarismo italiano? Davvero il sistema elettorale alla tedesca è una soluzione? Quando Casini afferma che l'appartenenza al Ppe impone di costruire il grande partito dei moderati che dialoga con la destra riformista, con chi pensa di farlo, solo con i postdemocristiani che si sentono a disagio nel pantheon del Partito democratico? Quando grida che «le lancette della storia non ci possono riportare al 1994» dove intende portare il suo popolo? Preoccupato di tracciare un quadro di ampio respiro, Casini s'è dimenticato di spiegare cosa l'Udc intende fare da domani. Perché non basta dire: «I moderati senza di noi non vanno da nessuna parte». Gli si potrebbe chiedere altrettanto legittimamente dove andrebbe lui a fare il Cameron italiano senza il blocco liberalpopolare di centrodestra.

Che - altro che «falsi sondaggi» - è già maggioranza nel Paese senza l'Udc.
Angelo Mellone

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