L’analisi Pirati somali, Occidente all’attacco

Dopo il cargo ucraino Faina, carico di armi, 40 altre navi di vari tipi e nazionalità nel solo 2008, ieri un attacco a cinque mercantili è stato sventato dalla nave italiana da battaglia Luigi Durand de la Penne. Due giorni fa i pirati somali avevano provato a impadronirsi anche di una grande nave da crociera americana con 400 turisti a bordo. Per una volta sono stati respinti, presumibilmente da guardie armate reclutate dall’armatore, ma l’interrogativo rimane: come mai la comunità internazionale, nonostante il dispiego di una squadra navale della Nato e di un’altra della Ue, non riesce a eliminare una piaga che mette in pericolo la navigazione in uno dei tratti di mare più frequentati del globo, ha fatto impennare noli ed assicurazioni e indotto addirittura alcune compagnie ad abbandonare la rotta del canale di Suez per quella, più lunga e costosa, del Capo di Buona Speranza? La risposta è sconcertante: da un lato, il diritto internazionale del mare, codificato nel 1958 e nel 1982, prevede sì la pirateria, ma come «crimine commesso per fini privati» e non ne facilita certo la persecuzione; dall’altro, nonostante tre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, nessuno sembra volersi assumere la responsabilità di un’azione di forza destinata comunque a provocare danni e vittime. Basti pensare che le unità della Nato che due mesi fa hanno intercettato la Faina dopo il sequestro hanno preferito «piantonarla» per oltre due mesi al largo della costa in attesa che l’armatore la riscattasse piuttosto di liberarla manu militari. Un altro problema è l’ambiguo atteggiamento delle compagnie di navigazione: reclamano a gran voce protezione ma se una delle loro navi viene sequestrata, preferiscono pagare il riscatto che chiedere alle unità da guerra presenti in zona di intervenire, perché non vogliono mettere a repentaglio né l’equipaggio, né il carico. Ecco perché i pirati possono ancorare le navi catturate davanti ai loro covi di Eyl e di Haradhere senza rischiare.
In base alle norme vigenti, le navi da guerra di qualsiasi Paese possono affrontare ed eventualmente catturare una nave pirata, ma solo in alto mare. Se invece hanno anche il diritto di affondarla, non è chiaro. All’interno delle acque territoriali, il compito di agire spetta invece ai Paesi interessati. Nel caso della Somalia, che non ha un governo in grado di provvedere, l’Onu ha fatto due mesi fa un’eccezione, ribadita con la risoluzione di ieri, ma senza specificare se le unità straniere hanno il diritto di colpire i pirati anche a terra, dove di solito si rifugiano. Nell’incertezza, la Nato è stata fin qui riluttante a fare uso di questa autorizzazione: solo i francesi hanno compiuto un raid terrestre, per catturare 12 pirati responsabili del sequestro di un loro panfilo. I Paesi che prendono prigionieri i corsari hanno il diritto di processarli nei loro tribunali, ma non sono entusiasti delle complicazioni relative. Con queste regole, e la prospettiva di doversi comunque impegnare in una piccola guerra, le navi presenti in zona si limitano a scortare quante più navi possibile (e in particolare quelle che portano aiuti alimentari ai somali).
A mano a mano che l’attività dei pirati aumenta, ci si rende tuttavia conto che il rischio per i traffici marittimi sta diventando troppo forte e varie lobby spingono all’azione. Ieri il Cds ha usato parole forti, e auspicato che la flotta Ue che entrerà in funzione l’8 dicembre faccia qualcosa di più.

Il progetto più gettonato è quello di una «dichiarazione di principi» da parte delle principali potenze marittime, che dia loro carta bianca negli interventi e che dovrebbe poi essere ratificata dall’Onu. Ma i tempi non sono brevi, e nel frattempo i corsari proseguiranno nelle loro scorrerie; nella speranza che, almeno, non vengano infiltrati dai terroristi.

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