Per quale motivo una riforma sanitaria che all’opinione pubblica europea appare ovvia, necessaria e - al massimo - solo un po’ troppo timida e tardiva, in America ha suscitato tante proteste, al punto che la sua approvazione è apparsa incerta fino all’ultimo momento? Le ragioni vanno cercate in primo luogo nel fatto che mentre nel Vecchio Continente il Welfare State ha mosso i primi passi già al tempo del cancelliere Bismarck, quella americana è una società diversa: dove maggiore è la preoccupazione per l’autonomia individuale e più viva l’attenzione su tasse e spesa pubblica.
Quando la riforma impone a chiunque l’acquisto di una copertura sanitaria (chi non lo farà, dovrà pagare 695 dollari di multa o una quota intorno al 2 per cento dei suoi redditi), è comprensibile che l’individualista texano, abituato a disporre come vuole della propria esistenza, storca il naso e si lamenti. Detto questo, non bisogna credere che da domani avremo in America qualcosa di paragonabile alle nostre aziende sanitarie locali, perché quello americano resta un sistema basato su un complicato intreccio di realtà pubbliche e private, ma sostanzialmente organizzato attorno a polizze assicurative. Non a caso, negli Stati Uniti molti si sono opposti all’Obamacare soprattutto perché preoccupati dai costi e, più in generale, dalla cattiva situazione dell’economia. La riforma voluta da Barack Obama introduce in effetti un gran numero di programmi pubblici, sussidi e autorità, al fine di aiutare chi oggi non è sufficientemente povero per accedere ai programmi di Medicaid (la sanità pubblica che paga le spese dei non abbienti), ma neppure ha i soldi o la voglia di acquistare un’assicurazione: preferendo, al limite, pagare il conto ospedaliero in caso di ricovero. Sulle cifre la battaglia tra democratici e repubblicani è stata durissima, poiché i secondi hanno sostenuto che si tratta di una riforma non solo destinata ad aumentare le tasse, ma anche senza copertura. Il Congressional Budget Office, organismo bipartisan che valuta l’impatto delle leggi sui conti pubblici, ha però dichiarato che la legge costerà certo 938 miliardi di dollari - una cifra mostruosa -, ma al tempo stesso ridurrà il deficit federale di 142 miliardi nei primi dieci anni. Per Obama si tratta addirittura del «più significativo sforzo di ridurre il deficit dai tempi del Balanced Budget Act» del 1990.
Per fare approvare le nuove norme il presidente è stato costretto a tessere una complicata ragnatela, cercando di vincere varie resistenze. In linea di massima è buona regola anticipare i benefici e ritardare i costi, così da rendere attraente la proposta: non a caso la tassazione delle coperture sanitarie assicurative più costose entrerà in vigore - se mai nascerà davvero - solo nel 2018. Qualche perplessità ha suscitato pure il Class Act (Community Living Assistance Services and Supports Act), che entra in concorrenza con programmi privati già esistenti destinati a persone non autosufficienti. In una prima fase le entrate supereranno le uscite, ma successivamente la situazione si rovescerà. Non sempre è stato possibile però adottare una simile strategia: numerose imprese, in particolare, si lamentano del fatto che mentre i sussidi non si vedranno fino al 2014, molte delle nuove imposte avranno effetto nell’arco di sei mesi.
Il quadro appare insomma molto complesso. Quel che è fuori di dubbio è che la sanità americana tende un po’ a «europeizzarsi», ma senza perdere del tutto i propri tratti ed è significativo che, intervenendo qualche giorno fa sul New York Times, un liberal per eccellenza quale Paul Krugman abbia dichiarato senza mezzi termini che «se vi fossero i voti, io sarei per estendere Medicare a tutti»: insomma, per un sistema all’europea.
Non sarà così, anche se la direzione in parte è quella: e non a caso la riforma prevedere di «calmierare» i prezzi delle polizze. Così com’è il sistema funziona male, ma esattamente per ragioni opposte: in primo luogo, a causa di una carenza di mercato.
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