L’angoscia di sparire nel mondo del Gps

La tecnologia ci ha abituati a essere sempre rintracciabili

Abituati come siamo, grazie ai cellulari, ai satelliti, ai Gps e a mille altre diavolerie tecnologiche, a essere rintracciati comunque e dovunque, l’idea di poter scomparire ci angoscia. È come se rimettesse in discussione la nostra immagine del mondo, le sicurezze raggiunte da generazioni di viaggiatori e di turisti che danno ormai per scontati i voli intercontinentali, e per cui è del tutto normale far vacanza in luoghi un tempo esotici ed ora apparentemente addomesticati, resi più vicini dai voli low cost. Ancora sui mappamondi dei primi del ’900 c’erano spazi bianchi, zone inesplorate. Oggi tutto sembra più accessibile, più vicino e sicuro. Poi capita una cosa come questa, un aereo che scompare dagli schermi radar e non dà più traccia di sé, e questo non nel mezzo dell’Oceano Pacifico ma in uno specchio di mare a cento miglia da una metropoli moderna come Caracas. Allora tutto salta, tutto cambia: il mondo ritorna ad essere di colpo ai nostri occhi un posto meno sicuro. Fra le paure che tormentano l’umanità, una delle più forti è decisamente quella dell’ignoto. Ricordo una mia prozia tormentata per tutta la vita dal non sapere cosa ne fosse stato del suo unico figlio, disperso durante la ritirata di Russia. Ripeteva che avrebbe preferito saperlo morto, piuttosto che rimanere in quell’incertezza senza fine. Si coglie lo stesso sgomento nelle parole dei parenti degli otto italiani ufficialmente «dispersi» da più di un mese nelle acque del Mar dei Caraibi. Uno sgomento aumentato dal fatto che oggi pare impossibile poter scomparire, in un mondo in cui i satelliti sono in grado di leggere il giornale di un passante e i programmi televisivi riescono a rintracciare un debitore o un marito fedifrago all’altro capo del pianeta.
E poi certi dettagli di questa tragedia sono decisamente inquietanti: il cellulare di uno dei dispersi che continua a squillare molto dopo che l’aereo si suppone sia caduto in mare; il ritrovamento del corpo del copilota e la rivelazione che l’uomo, il cui corpo non presenterebbe ferite, sarebbe rimasto vivo in acqua per cinque giorni, mentre le autorità governative venezuelane sostengono che la causa della sua morte sia il cuore lacerato dall’impatto...
Misteri nei misteri. Il Triangolo delle Bermuda sembra dietro l’angolo, come a pochi minuti di volo da Los Roques è l’isola di Tortuga, famigerato covo di pirati responsabili di innumerevoli tragedie del mare. L’assenza di una spiegazione genera ipotesi infinite sulla sorte dei passeggeri e dell’equipaggio del Let 410 della compagnia Transaven. Sembra quasi una puntata del serial Lost: l'impossibilità di accertare se una fine vi sia stata, e quale sia stata, confina gli scomparsi in un limbo come quello di cui, secondo alcuni, quella serie televisiva sarebbe la metafora.
Una delle scene più toccanti del film di Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo era quella in cui gli alieni restituivano al mondo i piloti e gli aerei scomparsi negli ultimi sessant’anni nel Triangolo delle Bermuda, rivelando che erano stati rapiti dagli Ufo. Quella scena era estremamente liberatoria. Più che la morte ci spaventa infatti, nel nostro mondo tecnologico, la scomparsa, l’assenza, l'impossibilità di chiudere il cerchio di una storia. In questo momento, mentre leggete queste righe, squadre dell’esercito americano setacciano le giungle del Vietnam alla ricerca anche del minimo frammento dei soldati americani dispersi durante la guerra. È una ricerca senza fine, dai costi assurdi. Parallelamente, grazie soprattutto a fondi militari, le tecnologie per l’identificazione del Dna dei morti hanno fatto progressi da gigante, tanto da far affermare al Pentagono che presto non esisterà più la possibilità di un «milite ignoto». Un esercito che spende più per identificare i cadaveri che per proteggere i soldati vivi dimostra quale, tra quella della morte e quella della scomparsa, sia la paura più grande dei nostri tempi.
È impossibile non identificarsi con i passeggeri, persone normali al posto delle quali avrebbe potuto esserci chiunque di noi. Cosa hanno visto, negli ultimi istanti del volo? Soltanto loro lo sanno. Il loro destino va ad aggiungersi ad altri misteri della storia dell’aviazione, come quello di Amelia Earhart, l’eroica aviatrice americana che scomparve nel Pacifico nel 1937, e sul cui destino si intrecciarono le ipotesi più inverosimili (c’è chi la volle impegnata in un volo sperimentale ultrasegreto, chi fucilata come spia dai giapponesi). Per ritrovarla, il presidente Roosevelt in persona aveva autorizzato l’impiego di nove navi e 66 aerei, con un costo di quattro milioni di dollari. Inutilmente.
E poi c’è Antoine de Saint-Exupéry, l'autore del Piccolo Principe, il cui Lockheed P-38 Lightning s’inabissò nel Tirreno il 31 luglio 1944.

Quando, sessant’anni dopo la scomparsa, vennero trovati a 60 metri di profondità al largo della Corsica i rottami di un P-38, il mistero della scomparsa sembrò finalmente risolto. Ma nell’aereo non c’era traccia del corpo del pilota. Né è stato sinora possibile accertare che quello fosse realmente l’aereo di «Saint-Ex».
Così la cronaca, nel silenzio e nel tempo, si trasforma in leggenda.

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