Politica

L’annuncio in diretta

RomaPressato dalle opposizioni, ormai nell’occhio del ciclone per l’aggiungersi di non pochi interrogativi anche in seno alla maggioranza, Claudio Scajola ha gettato la spugna. Dimissioni e annuncio di vendita per la casa vista sul Colosseo se, come dice, «si dovesse acclarare che sia stata pagata da altri».
Esce di scena, il ministro ligure dello Sviluppo economico, dopo una mattinata tesissima. In cui consulta a lungo i suoi più stretti collaboratori e poi - mentre circolano le voci più disparate - fa sapere che terrà una conferenza stampa. «Per difendermi non posso continuare a fare il ministro», annuncia, limitandosi a leggere poche righe di un testo messogli a punto. «Vivo da dieci giorni in uno stato di grande sofferenza e in questa situazione, che non auguro a nessuno, devo difendermi. E per farlo non posso continuare nel mio incarico come ho fatto in questi due anni, senza mai risparmiarmi. Ho dedicato, e ne siete testimoni - continua davanti a decine di microfoni e taccuini - tutte le mie energie e il mio tempo commettendo forse degli sbagli, ma pensando di fare il bene».
Non sono previste domande. Scajola dunque non replica a chi magari gli avrebbe chiesto se anche a palazzo Chigi e dintorni gli avessero suggerito l’addio. Dice però di aver ricevuto «attestati di stima da parte del presidente Berlusconi, dal governo, dal Pdl». Aggiunge di aver incassato anche «l’attenzione responsabile e istituzionale della stessa opposizione». Ma questo non pare consolarlo affatto. L’uomo mostra una piega amarissima. Confessa di stare «soffrendo» non poco (anche se ci tiene a dire di «non esser certo l’unico» visto che «tanti cittadini soffrono»).
Se la prende con «la campagna mediatica senza precedenti» fatta quotidianamente di «ricostruzioni giornalistiche contraddittorie». Ma non offre il benché minimo cenno di spiegazione rispetto alle indagini in cui si sarebbe appurato che il suo appartamento a Roma sarebbe stato pagato, oltre che con il suo mutuo, anche con 900mila euro in assegni portati dall’architetto Angelo Zampolini (a nome dell’imprenditore Diego Anemone) che li consegnò alle vecchie proprietarie, Beatrice e Barbara Papa.
«Un ministro della Repubblica non può sospettare di abitare in una casa in parte pagata da altri. Questa la motivazione principale, quella più forte che mi spinge a dimettermi», rileva in tono grave, facendo sapere di «essere estraneo alla vicenda e sicuro di riuscire a dimostrarlo». Poi però, aggiunge che qualora si dovesse appurare che la casa fu pagata anche da altri «senza saperne io il motivo, il tornaconto o l’interesse», i suoi legali «eserciterebbero le azioni necessarie per l’annullamento del contratto». Indirettamente, dunque, afferma di non sapere nulla di quegli 80 assegni in nero forniti alle precedenti proprietarie.
Lascia con l’amaro in gola, davanti ai giornalisti e anche ai figli Lucia e Piercarlo che lo hanno accompagnato al ministero in via Veneto. Ci tiene a far presente come abbia lavorato tanto nei suoi due anni di guida: «Le grandi progettazioni infrastrutturali, le misure per far pagare meno l’energia, il ritorno al nucleare, il piano per il Sud, gli incentivi per i prodotti italiani, i tanti tavoli di crisi attivati». A questo punto deve mollare tutto. Anche se in cuor suo forse già aleggia la speranza di rientrare in pista. Visto che puntualizza di «avere imparato che la politica dà sofferenze» ma di avere «anche imparato che sono compensate da soddisfazioni».
Chissà. Era già successo nell’83: sindaco dc di Imperia, venne arrestato dopo un’indagine sui conti del casinò di Sanremo. Si fece non pochi giorni di cella a San Vittore, ma poi fu prosciolto da ogni accusa. Di otto anni fa (giugno 2002), la vicenda Biagi. Quando in visita a Cipro, Scajola, ministro dell’Interno, si lasciò scappare davanti a due cronisti che l’economista ucciso dalle Br «era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza». Anche lì seguirono dimissioni. Due volte nella polvere, Scajola è riuscito a risalire.

Il terzo inciampo pare più complesso dei precedenti, anche se lui giura e stragiura di essere «completamente estraneo» da quel che è emerso a Perugia.

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