L’antropologo che raccoglie parole

Ascanio Celestini ha un volto antico che sa di saggio e profetico e nelle foto appare più maturo dei suoi trentatré anni. Quando lo incontri, invece, ti trovi davanti a un ragazzo minuto, dai colori più tenui, meno mediterranei, con la faccia di un fanciullo e gli occhi color acqua di fiume.
Definirlo uomo di teatro, antropologo, è vero ma non esatto: lui è un ricercatore messaggero, uno che diffonde il verbo popolare, qualcosa di arcaico e contemporaneo che risveglia il senso di appartenenza.
La sua è letteratura orale, fiaba, leggenda e frammenti di storia, sogni contadini fatti di realtà, stupore e inalterato incanto. «Per me è un rito registrare le persone a cui sono legato, è un momento sacro, è il senso del mio lavoro e il teatro mi offre la possibilità di raccontare storie, ritrovare luoghi e atmosfere» racconta Ascanio.
Aveva vent’anni quando ha cominciato a registrare la nonna materna, «La nonna di Anguillara, vicino al lago di Bracciano, che sapeva le storie di streghe, in apparenza fiabe contaminate con fatti accaduti realmente ottanta, cento anni prima - continua Celestini - in un tempo non precisato, remoto ma raccontato come un fatto vero che lasciava nel presente le tracce del passato. E le storie magiche si intrecciavano con le storie familiari. Nonna raccontava di un bisnonno suo che aveva salvato la vita a una strega e questa strega gli aveva promesso che l’avrebbe protetto, lui e le sette generazioni successive. E così si arriva fino alla mia generazione (credo) e, forse, a quella dei miei figli. Devo capire, fare bene i conti per vedere se c’entro anch’io».
La prima registrazione Ascanio la fece nel 1994, quando studiava già antropologia e storia delle tradizioni popolari all’Università La Sapienza di Roma, ma non gli interessavano tanto le culture remote, lontane nello spazio e nel tempo, quanto lo studio della propria cultura. Dopo qualche anno di teatro di strada, nel 1998 tornò a registrare e «dalla fine degli anni Novanta tutto il mio lavoro è costruito sull’intervista - spiega - ora, per esempio, sto registrando mia madre».
Sono nati così i suoi spettacoli, da Cecafumo (una giostra di fiabe popolari) a Radio Clandestina (testimonianza sulla strage delle Fosse Ardeatine), da Cicoria (legame di padre e figlio che scavalca la morte) a Scemo di guerra, alba del 17 aprile del 1944, raccontata da papà Gaetano Celestini, allora ragazzino, restauratore di mobili nato al Quadraro, alla periferia sud della capitale.
Nella narrazione di Ascanio c’è tutto: l’eco delle strade di Trastevere dove il nonno lavorava come carrettiere, le voci di Tor Pignattara, la borgata di mamma Piera, i racconti di un’anziana ciociara di Pico, le storie della prozia Fenizia, sorella della nonna d’Anguillara, «che guariva con l’imposizione delle mani, dicendo una preghiera che poteva essere insegnata solo la notte di Natale e a una persona soltanto, quella che veniva scelta per tramandare il dono».
«Per lo spettacolo Fabbrica che ha debuttato nel 2002 ho raccolto per due anni le voci degli operai lavorando poi sulle registrazioni, tagliando, scegliendo - continua Ascanio - a ottobre prossimo debutto con una Storia degli ospedali psichiatrici, piena di testimonianze di infermieri e pure di qualche paziente. Elementi concreti, fatti personali, storia costruita piano piano. Io ascolto e il mio ascoltare sollecita immagini. Quello che mi interessa è l’incontro umano, il mio è un po’ il ruolo del messaggero nella tragedia greca: non capisce bene quello che è successo, ma lo riporta fedelmente, lo ha visto. Può dire “Io c’ero”, “Io ce stavo coll’occhi mia”, si dice a Roma».
Chi c’era, era lì a respirare e sentire quell’aria in quel momento, i suoni, il rumore dei bombardamenti sul quartiere di San Lorenzo, il 19 luglio del ’43, «un giorno che mia madre ricorda bene, anche se si trovava a Tor Pignattara a sentire le bombe. È la storia concreta particolare che dà concretezza alla storia generale».
E quello che conta è la voglia, la necessità di riconoscersi, «la ricerca dell’identità culturale. Quando uno storico fa una lezione di storia si sta zitti a prendere appunti, le memorie personali, invece, sono anche collettive, non parlano alla sfera razionale ma fanno leva su qualcosa di più profondo. Il teatro racconta storie di persone e alla fine di uno spettacolo ognuno può ritrovare un po’ di sé, della propria personale memoria».


In chiave contemporanea, Celestini compie un recupero del linguaggio spontaneo - ma anche di quello arcaico e fiabesco delle campagne laziali - che in qualche modo si avvicina alla straordinaria operazione linguistica fatta da D’Annunzio nella Figlia di Jorio con la reinvenzione di un linguaggio popolare che rispecchiava e ri-creava il mondo mitico-magico dell’Abruzzo pre-moderno. Nel racconto di Celestini, i fatti, non schiacciati nella prospettiva uniformante del modello televisivo, vivono del calore, dello stupore, dell’umore di chi li narra.

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