Cultura e Spettacoli

L’apocalisse di Napoli: sparire o risorgere

Nel romanzo di Cappuccio, la città partenopea sembra in perenne attesa di un cambiamento che non arriva mai Camorristi, palazzinari, artisti e nobili decaduti complottano. Ma forse saranno spazzati via, come tutti gli altri...

L’apocalisse di Napoli: sparire o risorgere

Fuoco, lava, lapilli. E poi il mare che irrompe nella caldera e la fa esplodere in turbini irresistibili di vapore che tutto annichilisce. Dopo la terra trema, crolla, sprofonda. E le onde si infilano sciabordando nei vicoli, facendosi strada in quello che, una volta, era il centro di Napoli. Alla fine, ma ogni fine è un inizio, quello che resta è desolazione, sfollati e buoni affari (come in ogni tragedia e in ogni ricostruzione che si rispetti).

Ecco in una manciata di parole la vicenda che fa da sfondo al romanzo di Ruggero Cappuccio, Fuoco su Napoli, appena uscito per Feltrinelli (pagg. 256, euro 16). E concentratone il succo all’estremo verrebbe da parlarne come di una fantastoria ben riuscita, nonostante il genere in Italia non abbia mai funzionato un granché. Tanto più che l’esergo coglie bene lo spirito della fantascienza (e della letteratura in generale): «Questa storia è accaduta l’anno prossimo». Eppure non è il mare che invade le strade e sommerge Castel dell’Ovo, o manda all’aria i tavolini del Gambrinus, il cuore della narrazione. Nemmeno la furia del vulcano che, dopo aver donato a Partenope per secoli, decide di riprendersi tutto in un colpo.
Annidata nelle pagine c’è una vena carsica. C’è l’anima cangiante, ma triste, di una città, la battaglia quotidiana che qualunque dei suoi abitanti deve sostenere per cavarsela in quello strano limbo dove infrangere la legge non si deve, ma rispettarla non si può. Ecco allora i protagonisti di una vicenda, così surreale da sembrare vera, comparire sulla scena in sequenza da tragedia greca. Diego Ventre potente avvocato della Camorra, abituato a trasformare ciò che è sporco in pulito (e viceversa) scopre, con mesi di anticipo, il disastro (ha fatto ottenere certe concessioni edilizie al professore a capo dell’istituto di vulcanologia). Allora, lui che è coltissimo e vive tra una citazione di Stazio e la contemplazione di un Caravaggio rubato, decide di bloccare la diffusione dell’allarme alla popolazione.

Prima che tutto cambi deve vendere e comprare, fare il suo «play», come si dice in gergo. Via dal centro della città che andrà a pezzi, di corsa a lottizzare le zone che sfuggiranno al disastro. Ma mentre programma il suo azzardo edilizio, quello che lo trasformerà nel demiurgo di una nuova splendida città (perché anche il crimine sogna un futuro migliore), incontra Luce di Sangrano, bellissima erede della nobiltà pezzente della Napoli che fu.

La vede, la vuole, l’avrà. Ma quest’ultima scommessa, che se non è amore ci assomiglia, fa saltare il banco. Inserisce variabili che né la mente raffinata dei palazzinari né la furbizia di chi spara e spaccia nelle strade sono in grado di calcolare. E così tutti quelli che sono entrati nella pericolosa sciarada innescata dal Vesuvio finiscono molto male.

Si salva solo Napoli. Perché? Perché la città non è né morta né viva. È un rimpianto o un presagio, un qualcosa che nel presente non esiste. E tutto questo ben prima dell’eruzione. Ecco allora Diego Ventre che sembra un Tony Montana in versione italiana, ecco che nella pletora degli sconfitti, che si affacciano sul palcoscenico, si riconoscono infiniti tipi umani. Tipi che non sono veristici, ma che regalano un riflesso amplificato della follia di una metropoli che cannibalizza se stessa: Francesco De Mattia pittore che si lascia sfuggire il genio e la vita dalle mani; Maria Amerigo arrampicatrice sociale con poca classe e molto genio; Carmine Denza capo clan stanco che rimpiange di non aver fatto il bottegaio e gira in taxi, perché i taxi nessuno li ferma; Bianca una ragazza normale che vive una vita normale ma ha sottoscritto una promessa di morte...
Cappuccio fa letteratura, basta leggere il commento di una penna raffinata come Raffaele La Capria: «Nessuno ha raccontato Napoli, la sua deriva e il suo riscatto, come in questa storia d’amore e di stupro». Fuoco su Napoli è un libro in cui c’è la «denuncia» di un modo di vivere e di pensare. Eppure non è un «libro di denuncia». Non c’è la cronaca utilizzata per impastare la trama. C’è invece una realtà trasfigurata e portata all’estremo per raccontare un dramma e una commedia umana irriducibili ai verbali della omicidi. Insomma, niente Gomorra, piuttosto la fantasia come megafono della realtà. Come ci spiega l’autore: «Tutto quello che ho raccontato ha delle radici nei fatti. Compreso il rischio di eruzione. Ci sono studi che dimostrano che il Vesuvio è il vulcano più pericoloso del mondo e che basterebbe anche una scossa di media entità per abbattere il valore degli immobili a Napoli... Però io ho usato tutto questo come una metafora per creare una realtà mitica che mi aiutasse a guardare l’anima di una città. Ho usato la lente d’ingrandimento dell’apocalisse per indagare la stratificazione psicologica di un popolo che dà sempre la colpa a qualcos’altro e non si fa mai un esame di coscienza.

Bisogna capire perché un popolo accetta di vivere all’inferno, non bastano i reportage, per altro bellissimi, sulla Camorra».

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