L’appello dell’accusa sbatte «mostro» (e pm) in prima pagina

Caro Granzotto, in tema di riforma della giustizia mi sembra che venga poco preso in considerazione il progetto di abolire l’appello dell’accusa in caso di sentenza positiva per l’imputato. Oltre a sanare un paradosso (facendo appello il pubblico ministero, magistrato, sconfessa il giudice, magistrato, dandogli praticamente dell’incompetente) la non ammissibilità dell’appello da parte dell’accusa contribuirebbe più di ogni altro provvedimento al «processo breve», facendo risparmiare alla giustizia non solo tempo, ma anche molto danaro. Mi sembra che nel diritto anglosassone l’appello non sia previsto e non potrebbe essere questo un buon argomento per convincere la sinistra dipietrina a favorire col generale consenso la riforma?
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La sinistra che lei chiama dipietrina e cioè manettara e portavoce delle procure non sente ragioni, caro Bosco. Meno che mai le ragioni che in qualche modo si rifanno al Civil law anglosassone, dove tra accusa e difesa vige l’assoluta, totale, scrupolosa parità di diritti, dove il prosecutor, l’equivalente del nostro pubblico ministero, è di carica elettiva e il giudice - scelto per di più fra gli avvocati di grande fama ed esperienza - indicato dal potere pubblico. E lei capisce che per certa magistratura, quella spalleggiata dai dipietrini, un sistema come quello mette letteralmente paura. Per venire a noi, non è che nel diritto anglosassone non si possa impugnare una sentenza. Lo si può fare (a meno che le parti non abbiano patteggiato e negli Usa si patteggia nel 95 per cento dei casi), ma vi ricorre solo chi ha avuto una pesante condanna in primo grado e quindi ha poco da rischiare e questo perché la sentenza d’appello è di regola più severa della precedente. Il sistema giuridico americano detesta infatti la perdita di tempo e del denaro del contribuente. E, certo della correttezza del dibattimento, avendo piena fiducia nei suoi giudici, rispettando il verdetto della giuria popolare, ritiene una perdita di tempo e di danaro fare un processo al processo, perché questo è in pratica l’appello: mettere sotto processo una Corte. Gli stessi avvocati lo sconsigliano, ma qualcuno che insiste c’è sempre, immancabilmente pagando pegno sotto forma di un aumento della pena.
Nel nostro ordinamento, con una accusa che gode di poteri esorbitanti rispetto a quelli della difesa, con una accusa che divide carriera, uffici, macchinetta del caffè e personale col giudice in aula; con una accusa che se vuole può negare agli avvocati di prender visione del contenuto di un fascicolo processuale (ricorda, caro Bosco, il caso del faldone 9529 relativo al processo Sme, quello del «teste Omega»? Nemmeno gli ispettori inviati dal ministero della Giustizia poterono consultarlo), il diritto dell’imputato di ricorrere in appello in caso di sentenza a lui sfavorevole è sacrosanto. Del tutto fuori luogo e anzi, oltraggioso, il diritto del Pm a fare altrettanto. Salvo non voler esplicitamente accusare di cialtronismo o di corruzione la Corte, il ricorso all’appello da parte dell’accusa è solo un sotterfugio per tenere aperta la pratica e la conseguente gogna mediatica. Quando non, nei casi più meschini, la «visibilità» del Pm medesimo, secondo l’insano principio di sbattere il mostro in prima pagina per andarci, in prima pagina, anche lui. In America, dove il processo è già breve di per sé e dove nessun tribunale ha pratiche arretrate, intralciare la giustizia con trucchetti del genere non è consentito.

In Italia, dove il processo è già lungo di per sé, dove giacciono nei tribunali svariati milioni di fascicoli processuali da evadere, sono gli stessi magistrati o comunque la parte più rumorosa della magistratura a far muro rivendicando il diritto di seguitare ad approfittare di quei trucchetti. E i dipietrini a scandire: resistere, resistere, resistere.

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