Cultura e Spettacoli

L’ARTISTA (DISSIDENTE) TICHY

L a storia di Miroslav Tichy dimostra che esiste ancora una possibilità di mettere in crisi il dogma dell’arte contemporanea come contesto e strategia e di far volare il genio e il talento puro al di sopra di tutto. È la vicenda di un vecchio uomo nato nel 1926 a Kyjov, nella Repubblica Ceca, che da oltre mezzo secolo vive come un barbone e in assoluta poverta, il cui lavoro fotografico è stato scoperto per caso da Roman Buxbaum, un suo vicino di casa, sul finire degli anni Ottanta. Da lì l’interesse della critica e dei musei, fino all’esplosione del «caso Tichy», oggi diventato un mito e inseguito dai collezionisti di mezzo mondo. Lui, nel frattempo, non è più uscito di casa, non ha cambiato le sue stravaganti abitudini, e con quei soldi che gli sono arrivati ha comprato solo una televesione nuova.
Eppure da giovane Tichy sembrava avviato a una normale carriera d’artista. Nel 1944 si diploma all’Accademia di Praga in pittura, ma gli sembra che tutto sia già stato detto e fatto. Deluso dalla città, torna nel piccolo paese natio e si rinchiude in un volontario isolamento, vivendo per un periodo con la madre, comunicando con il mondo solo attraverso la fotografia. Si costruisce da solo le sue macchine fotografiche, perfettamente funzionanti, con i rifiuti che trova in giro: il rullino è azionato dal tappo di una bottiglia di birra, il tubo che forma il teleobiettivo è tenuto su dall’elastico delle mutande. Gli abitanti di Kyjov conoscono e tollerano questo innocuo clochard che va in giro a «rubare» volti e particolari di persone, soprattutto donne, ma nessuno sospetta che nel suo cervello vi sia una precisa ricerca estetica, nutrita di filosofia tra Schopenhauer, l’atomismo e il cinismo antico. Di notte, sviluppa le foto nel cortile della sua baracca, immergendo i negativi in una vasca da bagno. Dopo averli estratti, li manipola e ritocca aggiungendovi una straordinaria sensibilità pittorica. Ogni stampa è un esemplare unico, che ignora il meccanismo della serialità e della ripetizione. Non considera opere d’arte le sue creazioni ma una sorta di autoterapia: le prende e le sparge disordinatamente in quei pochi metri quadri dove abita, quando ha freddo e ha finito la legna le brucia per alimentare il camino o le usa per coprire i vetri rotti.
Il regime comunista non sopporta questo barbone sporco e impresentabile. Tichy entra ed esce dagli ospedali psichiatrici pur non soffrendo di patologie pericolose a parte la depressione. Ogni tanto viene arrestato per vagabondaggio e passa lunghi periodi in galera. Appena esce riprende a fotografare, donne che camminano per strada, sedute su una panchina, mentre fanno il bagno in piscina o distese al sole. Sono inquadrature catturate di nascosto che certo rivelano la tendenza voyeuristica dell’autore eppure prive di morbosità.
«Quando ero piccolo, mia nonna mi diceva: lavati le mani se non vuoi somigliare a Miroslav Tichy», racconta Buxbaum, il suo scopritore. Per gli adulti della cittadina Tichy era il cattivo esempio, l’archetipo dell’altro e del ridicolo. Nonostante gli avvertimenti Buxbaum decide di stanare il barbone senza denti, lo convince ad aprirgli la porta della misera abitazione: ecco che gli si rivela un mondo, migliaia di foto polverose e dimenticate, con il passepartout disegnato a mano. Finalmente il vecchio parla e gli racconta di aver sempre lavorato seguendo una regola inflessibile: un certo numero di scatti al giorno per un numero definito di anni, a inseguire le proprie ossessioni con metodo. Buxbaum organizza una piccola mostra che, per caso, il grande critico Harald Szeeman ha modo di visitare accorgendosi del genio assoluto dello sconosciuto fotografo. Convinto che il genio prima o poi è destinato a manifestarsi, Szeeman espone per la prima volta in pubblico le opere di Tichy alla Biennale di Siviglia nel 2004. Il successo è straordinario e il mondo dell’arte insegue questo miserioso autore decretandone la fama, nonostante lui abbia smesso da tempo di produrre.
Sembra una storia a lieto fine. Tichy entra nei musei che contano, il Centre Pompidou di Parigi, l’International Center of Photography di New York, la Kunsthaus di Zurigo. In Italia passa per la prima volta alla Pinacoteca Agnelli la scorsa primavera nella straordinaria mostra «The Museum of Everything» dedicata all’outsider dell’arte e, finalmente, nella personale inaugurata pochi giorni fa da Guido Costa Project a Torino. La Tichy Ocean Foundation, che ne sostiene il lavoro, vanta testimonial illustri, come gli artisti Richard Prince, Sophie Calle e Thomas Ruff, il compositore minimalista Michael Nyman e la rockstar Nick Cave, che nel 2008 gli ha dedicato la canzone The Collector.

Lui non è mai più uscito di casa, non vuole vedere nessuno, ride di chi lo considera un classico della fotografia e continua a lottare contro i topi che gli devastano la dispensa.

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