L’assassino con la balestra era un fan di Rosa e Olindo

Come ingegnere meccanico, a suo tempo, l'ingegner Stefano Anelli, 62 anni, dev'essere stato un fenomeno. Per dire: non è che tutti sono capaci di fabbricarsi un fucile calibro 12. E non è che tutti, alla fine, decidono di farne l'uso che ne ha fatto lui, puntandosi la canna alla tempia dopo aver ammazzato la nipote. Nel senso che nel caso dell'ingegner Stefano Anelli c'è voluto coraggio, determinazione, razionalità, calcolo. Doti che si attagliano perfettamente a uno abituato a ragionare in termini di decimi di millimetro. Perchè qui il raptus, la depressione, lo sbalestramento non c'entrano. Cioè: c'entrano col delitto, ma il suicidio è quello di chi sa di essersi infilato in un culo di sacco, e ne trae le debite conclusioni.
Stefano Anelli è l'uomo che l’altro ieri ha ucciso a colpi di forbice e poi con un dardo alla gola la nipote Monica. Si pensava che di mezzo ci fosse un'eredità, soldi e case; e si scopre che l'uomo, apparentemente normale come possiamo esserlo io che scrivo e voi che leggete, era invece malato; pazzo diremmo noi, generalizzando. Pazzo al punto da aver scritto un giorno una lettera a Rosa e a Olindo, i coniugi condannati all'ergastolo per il delitto di Erba (11 dicembre di quattro anni fa: muoiono la mamma, il figlio, la nonna e una vicina di casa). Lettera colma di apprezzamenti ed elogi, come quella che un fan avrebbe scritto a un idolo del rock. Spietati assassini Olindo e Rosa Bazzi? Pazzi scatenati da chiudere in manicomio buttando via la chiave? Ma no, ma no; al contrario, secondo l'ingegner Anelli, che intanto in casa si fabbrica balestre e fucili di precisione. Rosa e Olindo, scrive l'ingegnere nella minuta di una lettera ai coniugi Romano che gli hanno trovato in casa, sono «vittime del sistema e della magistratura».
Dicono che l'ingegnere soffrisse di manie e che si fosse chiuso al mondo, limitando al minimo i contatti col genere umano. Bè, quanti ce ne sono che soffrono di manie e chiudono i contatti col mondo, limitandosi a un cenno del capo e a un buongiorno e buonasera rivolto ai vicini di casa, al fruttivendolo e al giornalaio? Come si fa a indovinare che dietro le facce dei tanti solitari che si muovono accanto a noi, sui marciapiedi delle città in cui abitiamo c'è la mente in disordine di un tipo che da un giorno all'altro potrebbe prendere una balestra e piantarvi un dardo nel collo? Si è detto -lo dicono gli inquirenti- che all'origine della tragedia non c'è una storia di interessi. E allora? Forse solo una profonda antipatia, lardellata di screzi e di cattivi umori per quella nipote avvocato; forse dei sorrisetti mal digeriti, qualche discussione di pianerottolo. A corroborare l'ipotesi degli investigatori c'è una sorta di diario in cui l'ingegnere aveva scrupolosamente annotate -dal mese di marzo fino al 16 settembre, vigilia dell'omicidio- le volte in cui la nipote entrava e usciva di casa. A che cosa doveva servire un diario del genere? A cosa puntava, quella meticolosa, maniacale ragioneria del va e vieni di Monica? Dicono anche che lo zio, che viveva nella stessa palazzina della nipote con la sua terza moglie romena, non avesse apprezzato la decisione di Monica di mettersi a convivere col proprio compagno nell'appartamento attiguo.

Ma basta, tutto ciò, a giustificare un delitto e un suicidio? O non conviene fermarsi sulla soglia di questa lettera scritta ai coniugi assassini di Erba, rinunciando a capire, e arrendersi di fronte al lato buio, inesplicato, inconoscibile che sempre si cela dietro le facce di chi ci scivola accanto, sui marciapiedi delle città in cui viviamo?

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