L’avanguardia si trascina fra gli sbadigli

M a l’arte contemporanea ha davvero fallito? Secondo le parole di Giovanni Reale, espresse ieri in un lungo articolo su Il Giornale, sembrerebbe proprio di sì, nonostante il suo successo planetario, anche se il pubblico interessato si è moltiplicato negli ultimi decenni, grazie alla capillare diffusione di un sistema capace di radicare il proprio consenso dalle mostre ai musei, dalle fiere alle case d’asta, dalle riviste specializzate alla stampa generalista.
Cosa c’è che non va, dunque? Se nei primi decenni del Novecento, l’avanguardia era considerata ostica per antonomasia, oggi ciò che ne resta scivola via nell’abitudine: siamo infatti assuefatti a qualsiasi tipo di provocazione, a considerare arte qualsiasi tipo di proposta, indipendentemente dalla sua elaborazione formale o dal significato che veicola. È il contesto a garantire per essa: ciò che sta dentro a un museo è arte. Punto e basta, inutile interrogarsi oltre, sarebbe solo una perdita di tempo.
Questa storia si trascina da poco meno di un secolo, da quando il più celebre ready made duchampiano, un orinatoio uguale a quelli che si trovano agli autogrill, ha varcato la soglia del museo. Il punto è che Duchamp era un genio, provocatore, ma genio, perfettamente in linea con la necessità dell’avanguardia di rompere con il passato. Allora era una condizione storica, oggi una stanca ripetizione manierista. Il problema, dunque, non è mai stato Duchamp ma i suoi nipotini, che dal nonno hanno colto solo la superficie e continuano a procrastinare all’infinito una teoria dell’arte che si regge unicamente sul valore del contesto. Protetti dai bianchi muri del museo, complici curatori, critici, collezionisti pseudo-acculturati, non sono andati avanti di un metro da quel 1917. Inevitabile che oggi l’arte abbia bisogno di tutto tranne che dello sguardo. È una disciplina che fonda il proprio successo sul mito, sul racconto di sé, sulla sua invisibilità. Importante sapere che certe cose siano esistite, ma quanti l’hanno viste dal vero e davvero? Quanti si sono fermati in contemplazione davanti a oggetti o happenings di nessuna rilevanza estetica, al limite stimolanti per la loro incidenza sociologica?
Facciamo degli esempi: negli anni ’60 Andy Warhol realizzò alcuni film d’avanguardia estrema, dove la vita si svolgeva in presa diretta, citati in ogni manuale che si rispetti. Eppure, qualcuno ha forse visto per intero la lenta sequenza sull’Empire State Building di oltre sei ore? No, e non ce n’era affatto bisogno. Sono in molti a ritenere la performance che Gino De Dominicis inscenò alla Biennale di Venezia del 1972, l’esibizione di un ragazzo down come opera d’arte vivente, quale apice della provocazione, cinica e sfrontata. Tutti la citano pur conoscendo appena una foto sbiadita su qualche rivista del passato, sfuggita al controllo dell’autore che non voleva fossero pubblicate le sue creazioni. Idea per niente balzana, poiché in assenza di immagini la versione dei fatti può essere tranquillamente travisata accrescendo il valore di qualcosa dal poco significato.
Vincitrice discutibile del Leone d’Oro all’ultima Biennale, Yoko Ono ha lasciato in giro foglietti con frasi e pensieri, e nessuno se ne è accorto. I curatori insistono nel proporci video o film lunghi e mortalmente noiosi, dove il pubblico, indifferente, transita davanti allo schermo, soffermandosi pochi secondi e poi tirando innanzi. Così disabituati all’educazione dello sguardo, alcuni non si accorgono neppure se un lavoro è davvero inedito o se è già stato esposto. Non è uno scherzo ma un episodio accaduto di recente al Premio Cairo a Milano, e raccontato su queste colonne: nessuno tra i presunti esperti ha realizzato che l’opera di Marzia Migliora era già stata esposta. Mica per dolo o disattenzione, semplicemente perché convinti che l’arte oggi non vada guardata ma imparata a suon di curricula.
Nel terzo millennio, dunque, l’ultimo ready made è la pittura, cacciata dai musei perché ritenuta dai fessi troppo tradizionale, deve riconquistare a fatica quel posto che la storia le ha assegnato. Se non ci credete, provate a fare questo gioco: prendete un quadro figurativo di un bravo autore. Portatelo alla pizzeria Marechiaro, quindi in una discreta galleria, infine in un museo. Nel primo caso verrà interpretato come la prova dilettante di un pittore della domenica, nel secondo liquidato con l’aggettivo commerciale, nel terzo accettato dal sistema e magari incensato dalla critica.

Ovviamente, cambierà del tutto il valore economico, da poche decine di euro a centinaia di migliaia. Non è dunque l’arte tout court ad aver fallito, ma l’infinita stirpe di artisti concettuali, inutile, noiosa e dannosa.

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