È ridicolo lo sbracciarsi di Walter Veltroni per apparire come il vero rappresentante delle imprese innanzi tutto del Nord-est. Non va riscoperta la lotta di classe, gli imprenditori sono persone che lavorano duro e producono ricchezza, vi è un destino comune tra operai e industriali: dice il leader del Partito democratico. Benissimo e ottima anche la polemica con la sinistra estremista: solo che la politica è anche racconto, è argomentazione delle scelte che portano a certe conclusioni. E quando c’è una svolta, è spiegazione degli sbagli precedenti. Tutto ciò manca nella riflessione veltroniana e la lascia disperatamente monca, pericolosamente inaffidabile. E l’idea di sostituire una riflessione critica sugli errori di un lungo periodo, raccattando un paio di imprenditori incorsi in incidenti di guida della Confindustria e dunque non più sostenuti dai loro colleghi per nuovi incarichi, ha quel sapore di manipolazione che viene da un passato antico che andrebbe definitivamente messo in cantina.
È evidente, d’altra parte, che il Pdl non ha i problemi di Veltroni: la sua leadership è quella di un imprenditore, Silvio Berlusconi, sceso in politica innanzi tutto per difendere la libertà di intraprendere, una persona in cui la larga maggioranza dei ceti produttivi italiani si è identificata istintivamente perché era l’uomo che rompeva le conventicole degli establishment ammuffiti, dei poteri profondi e poco trasparenti: politici, dello Stato, sindacali.
Negli ultimi tempi l’agitarsi veltroniano ha comunque sollecitato il centrodestra a cercare qualche candidatura che sottolineasse ancora meglio il carattere di forza profondamente legata alle forze produttive nazionali. E si ha l’impressione che questa ricerca sia stata fatta con una qualche frettolosità. Il che, naturalmente, non è un bene. D’altra parte sembra di capire che la proposta di candidatura ad alcuni imprenditori, si sia intrecciata con le esigenze della Confindustria di darsi un profilo diverso, più concentrato sui problemi (per esempio anche sulle questioni della sicurezza in fabbrica) e meno sulle tramette politiche come era avvenuto negli anni scorsi. In questo senso è a mio avviso un peccato dover rinunciare in Parlamento e nella squadra di governo a persone della qualità di un Antonio D’Amato o un Andrea Riello. Ma se il risultato è quello di avere una Confindustria che si sforza di tornare a grande forza propositiva come avvenne nella stagione damatiana, sui temi concreti e non più fonte di politicismo e politicantismo, allora forse lo scambio vale in parte la pena.
Comunque quella che stiamo vivendo è la fine di una stagione, in cui l’organizzazione del centrodestra è stata costretta a un modo di agire sia nella definizione del programma sia nella selezione dei candidati molto concentrato, dall’asprezza dello scontro non solo con il centrosinistra ma anche con larghi settori dell’establishment, in tempi abbastanza recenti anche confindustriale.
Questa stagione emergenziale sta finendo, il voto quasi sicuramente per il centrodestra del 13 e 14 aprile chiuderà non solo una vicenda politica contingente ma la fase storica della guerra senza tregua a Berlusconi.
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