L’ex leader critica l’inno Ma è lui a dover cantare «meno male che Silvio c’è»

INGRATO Fini: «Quel brano non mi piace» Ma dalle Comunali di Roma del ’93 al ministero degli Esteri, grazie al Cav è passato da missino in camicia nera a presidente della Camera in cravatta rosa

In fondo lo si può capire, se l’inno «Meno male che Silvio c’è» non gli piace, come spiegato a Ballarò. La parabola di Gianfranco Fini non è diversa dal quella dei tanti giovanotti un po’ sfigati che al liceo stanno sempre soli, nemmeno un povero cristo che beva un Campari con loro al bar. Poi, arriva il daddy che li prende nella fabbrichetta di famiglia e questi cominciano a girare in Porsche e a rimorchiare da bravi yuppies. Capirete che sentirsi rinfacciare ogni giorno che senza il papi sarebbero rimasti a lottare contro l’acne e ad ascoltare Marco Masini in camera, può dare ai nervi.
Più o meno è quello che accade a Gianfranco Fini ogni volta che ascolta l’inno del Pdl. L’inno che «non serve a un partito in questa fase post ideologica», ma che in realtà lui dovrebbe farsi tatuare sull’ardito petto più di altri. Già, perché se per sbaglio Silvio non ci fosse mai stato, il presidente della Camera forse non sarebbe tale. Magari non ascolterebbe Marco Masini, ma di sicuro non sfoggerebbe la cravatta rosa d’ordinanza da Terza carica dello Stato.
Proviamo a immaginare per un attimo che Berlusconi sia stato per Fini solo un brutto sogno, una macchia da cancellare col correttore: il Cavaliere-che-non-c’è. Per prima cosa, l’Msi sarebbe rimasto poco oltre il 5% del ’92 e An non sarebbe arrivata al 13% delle Politiche del ’94 neppure se avesse seguito la «seconda stella a destra fino al mattino», come Peter Pan. In secondo luogo, gli sarebbe mancato lo sponsor Silvio alle Comunali di Roma. Nessun outing, nessuno «sdoganamento» dell’Msi. Per dire, staremmo ancora qui a sentire Goffredo Bettini sproloquiare sui «legami con organizzazioni razziste e neonaziste» di Fini, come nel ’93.
Insomma, la destra sarebbe ancora interrata e lapidata da tutto un arco costituzionale ansioso di gettare la prima pietra. E Gianfranco avrebbe avuto una storia diversa. Nel ’94 non sarebbe mai andato a vedere Milan-Foggia con La Russa - lui laziale, Ignazio interistissimo -, solo per far piacere al Cav; non avrebbe mai lanciato il Bo. Re. («Boicotta Repubblica») per difendere la Fininvest vittima del «Boicotta il Biscione»; non avrebbe mai ottenuto i 5 ministeri ad esponenti aennini nel primo esecutivo Berlusconi. Se Silvio non ci fosse stato, altro che «profilo istituzionale»; altro che i cinque anni alla Farnesina, i viaggi in Israele con la kippah in testa, il vicepremierato, il minuzioso percorso di riposizionamento. Se Silvio non ci fosse stato, forse Fini sarebbe ancora nell’angolo.
Senza Silvio che nel ’94 lo difendeva sul Washington Post dopo le sue esternazioni su «Mussolini grande statista», Fini sarebbe ancora quello del ’92, che reclamava: «Il saluto romano non mi scandalizza, in anni in cui tutti fanno a gara ad annacquare la propria identità». Anni dopo la sua identità di destra sembra la Levissima e il fascismo è «il male assoluto». Senza Silvio e il suo traino verso il centro moderato, Fini non sarebbe quello che oggi presenta il suo libro nella libreria Coop di Bologna, ma sarebbe ancora quello che denunciava «il patto tra Rutelli e le Coop rosse, ansiose di mettere le mani sulla grande torta». E senza la garanzia e il tutorato del Cav, Fini oggi non sarebbe giunto al completo testacoda sull’immigrazione. Tuonerebbe ancora contro «l’assistenzialismo facilone e irresponsabile» come nel ’90.
Perché se oggi l’ex leader di Msi e An è una figura così centrale da potersi permettere un revisionismo completo del suo pensiero passato, lo deve a chi da quel cantuccio infame - figlio del pregiudizio - lo tirò fuori. E il sentirsi in debito, a Gianfranco che oggi guida la fuoriserie Farefuturo, dà un fastidio porco. Silvio che se lo riprese in casa dopo il flop dell’Elefantino con Segni nel ’99, Silvio che finse di non sentire quando l’altro bollava il Pdl come «comiche finali». Silvio che gli ricorda l’onere della riconoscenza ora deve sparire dall’inno, retorico e populista, non come il «Canto degli italiani» di Almirante, colonna sonora del suo Msi.

Quella riconoscenza che, parafrasando Don Ciccio del Gattopardo, «può essere dimenticata per un feudo in più, ma diventa un obbligo per un pezzo di pane». E Fini prima di Silvio non era un vassallo della politica indifferente agli attestati di stima. No, Fini bramava un pezzo di pane, un pezzo di alleato. Però di riconoscenza non se ne parla comunque.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica