L’harakiri di Mishima Lo scrittore giapponese in un film scandalo

Il regista Wakamatsu firma una pellicola sul discusso intellettuale nazionalista che si uccise in diretta televisiva

L’harakiri di Mishima  Lo scrittore giapponese in un film scandalo

Mentre in Europa le sovranità nazionali si affievoliscono, in Giappone un veterano del cinema indipendente, Koji Wakamatsu, anche noto per aver prodotto L’impero dei sensi (1976) del maestro Nagisa Oshima, firma un film sulle ultime ore di Yukio Mishima (1925-1970), lo scrittore giapponese più controverso del secolo, discusso soprattutto per il suo credo ancestrale in un Giappone ultraconservatore. Su YouTube già circola il trailer di «11.25 Jeketsu no Hi: Mishima Yukio Wakanorotechi», drammatico resoconto dei giorni finali di Mishima, suicidatosi il 25 novembre 1970, all’ora cui si riferisce un titolo denso di riferimenti: probabilmente la pellicola andrà al Festival di Cannes, data la stima dei francesi per il mondo giap, in generale, e in particolare per Kawamatsu, specialista classe 1936 di film sulle ossessioni sessuali. Il suo ultimo titolo, in primavera sugli schermi giapponesi, si riallaccia alla gioventù nazionalista (Wachanorotechi), che l’autore di Confessioni di una maschera e di altri capolavori, quasi tutti pubblicati da Feltrinelli, raggruppò nella milizia privata Tatenokei (significa: «Società dello scudo»), da lui fondata il 5 ottobre 1968 per proteggere e difendere i valori del Sol Levante. Mishima, che nell’anno topico delle contestazioni giovanili internazionali, dette voce agli studenti di destra del suo paese - da qui, quel tabù italiano anni Settanta nei suoi confronti -, mirava a ristabilire il potere dell’imperatore, divino per statuto, ma omologato dalla Costituzione del Giappone nel 1947. E stranamente quei 300 giovani soldati, devoti a Yamato, ovvero al Giappone dei loro antenati, ebbero il permesso di esercitarsi in stages di combattimento ai limiti della legalità. Nel film, che si concentra sul colpo di stato fallito, da parte di Mishima e sul suo ostico rapporto con la società nipponica degli anni Sessanta, percorsa da profonde trasformazioni, Arata, attore-feticcio di Wakamatsu (Caterpillar e United Red Army), interpreta lo scrittore con virile intensità.
Nel Giappone omologato di oggi è bastato annunciare il film per sollevare polemiche: brucia ancora il ricordo di quell’autosventramento in diretta televisiva, che fece entrare Mishima nel Gotha degli autori maledetti. Se non potè avere il Nobel per la Letteratura, nel 1968 vinto dal più anziano Yasunari Kawabata, almeno ha vinto l’Oscar alla personalità più sulfurea della Repubblica delle Lettere. E Kawamatsu, che nei Sessanta utilizzò i suoi film erotici per illustrare la situazione politica del proprio paese, tra asservimento agli Usa e consumismo forsennato, non ci risparmierà il seppuku, il suicidio virile con taglio del ventre, tramite sciabola corta, subito sotto l’ombelico. Si rivivranno, dunque, quei tremendi istanti: Arata/Mishima che assalta il Ministero della Difesa, a Tokyo, con quattro suoi miliziani; lo scrittore, fascia del Sol Levante sulla fronte, che arringa la folla dal balcone, dopo aver tentato il colpo di stato in vista d’una riforma costituzionale; Mishima, infine, che si strappa la camicia, fa harakiri aprendosi l’addome per essere poi decapitato dal suo luogotenente Masakatsu Maritu, a sua volta suicida via seppuku. Si tratta d’un pamphlet storico-politico, quindi, che fa gridare al machismo dell’autore, così distante, nell’estetica, dall’americano Paul Schrader, che a Mishima dedicò un biopic in bianco e nero e a colori e in quattro parti: «Mishima: una vita in quattro capitoli» (1985). Prodotto in Giappone da Francis Ford Coppola e da George Lucas, il capolavoro di Schrader prendeva le mosse da alcuni romanzi di Mishima, focalizzandosi sulla vita erotica dello scrittore, in realtà più amante del «burnburyodo», la doppia via che unifica Lettere e Arti marziali, arte e azione, etica ed estetica, che non delle donne. Anzi, l’omosessualità di Mishima, che nel suo biglietto d’addio scrisse: «la vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre», è nota.

Come le sue difficoltà ad avere rapporti fisici, o l’attaccamento morboso alla madre e il matrimonio di convenienza di quest’uomo emotivo e vulnerabile, che dietro la maschera del samurai celava l’incapacità di amare. E una solitudine che gli cresceva dentro «diventando sempre più obesa, come un maiale».

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