L’impresa di Fiume fu avventata e senza senso

E così anche questa, la presa di Fiume città irredenta - città della quale Gabriele d’Annunzio proclamò l’annessione al Regno d’Italia il 12 settembre 1919 - fu l’ennesima impresa italiana.
Gli ingredienti c’erano tutti: mille uomini, i soliti mille di tutte le imprese italiane, come diceva il compianto Indro Montanelli, il capopopolo, il Vate, che condiva il tutto di arte e poesia, e quel desiderio di avventura che, diciamolo, caratterizza tutti noi italiani. Il problema, come tutte le imprese italiane, erano i tempi, sbagliati, e i modi; un po’ caciaroni e sbracati.
E in effetti i risultati non potevano andare diversamente da come poi andarono. Fiume fu tenuta e governata da d’Annunzio per quasi un anno. Il Vate ne fece un laboratorio di estetica politica da cui poi uscì fuori il «meglio» di tutti gli estremismi italiani dell’epoca. E via con il culto della bella morte, del capo che governa la piazza, e con il mito della vittoria mutilata sanata. Sanata dal meglio, così credevano i fiumani, dell’Italia. Dalla «meglio gioventù», ovvero quella «meglio gioventù» che di lì a poco confluirà a vele spiegate nel Fascismo e sarà protagonista della marcia su Roma guidata dai quadrumviri e, a cui, però, il futuro Duce partecipò in vagone letto.
Alla fine Fiume, fu, semplicemente, un colpo di testa, risolto dall’ultimo Giolitti con realismo e senso dello Stato (il 24 dicembre 1920 l’esercito italiano procedette con la forza allo sgombero dei legionari fiumani dalla città).
Fu una cosa semiseria che, come spesso succede in Italia, si trasformò in melodramma.

Una messa in scena alla quale il suo protagonista, il Vate, partecipò lavorando, inconsapevolmente, per il Re di Prussia, ovvero Mussolini. Il secondo gallo nel pollaio dell’avventurismo nostrano dell’epoca che, finito, D’Annunzio, diventò l’unico gallo. Incontrastato.

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