L’indulto ridà la libertà a un detenuto su cinque

Ma lo scontro tra il ministro della Giustizia Mastella e quello delle Infrastrutture Di Pietro infastidisce Prodi. Polito: «Un duello tra lobby garantista e lobby giustizialista»

Roberto Scafuri

da Roma

Una manciata di minuti dopo le 18 l’indulto è legge, lo sconto di tre anni di pena una realtà, battono marmitte e cucchiai contro le grate dei penitenziari di tutta Italia. «Radio carcere» diffonde l’evento che si materializza al Senato quasi in tempo reale: da Regina Coeli all’Ucciardone, da Poggioreale alle Vallette i boati si susseguono come nella notte mundial. Si realizza l’auspicio di papa Wojtyla, e dal Vaticano il cardinal Martino esprime «grande soddisfazione». Un «affronto», lo giudicano i familiari delle vittime di via dei Georgofili, dando voce ai superstiti che in queste ore vivono lo sconto di pena come l’ennesima ingiustizia, l’ennesimo dolore. Si tratta una volta in più di conciliare Caino ad Abele, stati d’animo eterni e insondabili come l’uomo, come la sua redenzione e il perdono.
Tornano in libertà 12mila detenuti su 60mila (uno su cinque), «nessun serial killer», fa sapere una delle star politiche della giornata, il ministro guardasigilli Clemente Mastella. Artefice della prima, vera «larga intesa» da molti anni a questa parte, che qualcuno sarebbe pure tentato di tradurre in maggioranza stabile e duratura. Se non fosse che la maggioranza dei due terzi richiesta per l’indulto (245 sì, 56 no, 6 astenuti ieri al Senato) taglia come un treno i due poli e disegna non tanto due coalizioni diverse, quanto due diverse Italie. Da un lato Rifondazione e Forza Italia, Ulivo e Udc, passando per Udeur e Verdi. Dall’altra l’Italia dei Valori e la Lega, An e il Pdci, più tanti «malpancisti» in ognuno degli altri partiti. Una sintesi di cuore, più che di ragione, forse persino specchio del suo deus ex machina, appunto Mastella. Cornetto portafortuna alla mano, battuta sempre pronta, folletto insondabile nella sua verace passione politica al primo passaggio di nobiltà, il Guardasigilli Clemente tiene banco per l’intera giornata parlamentare a Palazzo Madama, dirige i «buoni», tiene alla larga i «cattivi», dà succo e sostanza al proprio nome, tanto da indurre alla facile battuta i detrattori («Questo è un provvedimento di Clemente non di clemenza»). Mastella corre volentieri il rischio dell’esagerazione, e così «dedica» il voto a Papa Wojtyla come se si trattasse della vittoria in Champions; si raccomanda da papà burbero ai detenuti («siano degni del gesto di clemenza»); tratta da pari il premier Prodi delineando futuri scenari di governo. E offre persino, alla fine, il calumet al Caino-Di Pietro: «La guerra punica è finita, dai Tonino stringiamoci la mano, da domani si torna a lavorare assieme...».
Sembra quasi «Caramba che sorpresa», ma per fortuna Tonino Di Pietro a Palazzo Madama non si fa vedere. È a Milano per questioni di ponte e Infrastrutture, così da ispirare a Clemente un’altra battuta feroce: «Sarà andato in Procura...». Lo scontro tra i due ministri mette alle corde il governo, e Prodi da Bologna si danna al telefono per ridurre i danni («Non sono preoccupato», si preoccupa di far sapere). La spinosissima faccenda va chiusa al più presto, prima che i suoi tagli perpendicolari nella maggioranza producano effetti nefasti. Lobby garantista contro lobby giustizialista, banalizza in british style il senatore ulivista (e campano) Polito. Ma è vero che i dipietristi che fanno sit-in davanti al Senato e che al passaggio del provvedimento urlano la loro rabbia («Vergogna, vergogna!») trovano echi sommessi in ogni gruppo. Così in Rifondazione ci si rifugia nell’auspicio di leggi che possano dare un contesto migliore al comparto giustizia, mentre l’Ulivo affronta in due roventi riunioni il malumore generale. L’ex procuratore di Milano D’Ambrosio diserta entrambe, ma fa sentire il suo fortissimo dissenso (condiviso da Borrelli e tanti altri magistrati, con l’eccezione del veneziano Casson) ricordando che «tra sei mesi le carceri avranno gli stessi problemi» e che sulla giustizia «la maggioranza ha cominciato molto male». Durissimo nelle riunioni uliviste Natale D’Amico, che alla fine si uniforma al «sì» solo per disciplina di gruppo (è la prima volta che accade), ed è seguito da Marina Magistrelli, Simonetta Rubinato e Giorgio Tonini. Altri, come Zanone e Fisichella, voteranno «no» in dissenso dal gruppo. Altri si asterranno, persino il dipietrista De Gregorio. Diaspora dei Verdi-Pdci (gruppo paradossalmente denominato «Insieme con l’Unione»): sì per Cossutta e Verdi, ma la capogruppo comunista Palermi, due pdci e la verde Donati si astengono. Crisi di coscienza, all’incontrario, in An, dove il capogruppo Matteoli è il capofila dei pochi che propendono per l’indulto.

Lega tetragona per il «no», con Castelli che incita persino i dipietristi a sostenere i propri (quasi 1500) emendamenti, quando l’aula galvanizzata da Calderoli li falcidia uno a uno. È una giornata particolare, un sabato di luglio, con «le facce un po’ così» come diceva una celebre canzone.

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