LeccoNessuno si era mai chiesto che rapporto di lavoro ci fosse ancora tra l’infermiera killer e l’ospedale di Lecco, suo ultimo posto di lavoro. Sonya Caleffi era stata arrestata nel dicembre del 2004 dopo un’indagine che era stata fatta scattare proprio dalla direzione del «Manzoni». Troppe morti sospette, nei reparti dove prestava servizio l’infermiera di Tavernerio, che all’epoca aveva 34 anni. Da qui prima l’allontanamento dai pazienti, poi le manette e il trasferimento in carcere.
Fine della carriera per l’infermiera professionale che aveva problemi con il cibo e con la morte, e che iniettava aria nelle vene dei pazienti solo per fare vedere come fosse brava ad affrontare le emergenze. Prima scatenava la crisi e poi, prontamente, lanciava l’allarme. A volte, però, succedeva troppo tardi. Ecco, tutti davano per scontato che il rapporto di lavoro tra la dipendente e l’ospedale fosse cessato in quel momento, con la confessione, o poco dopo. In realtà la Caleffi aveva smesso di andare a lavorare, ma lo stipendio le arrivava lo stesso.
Solo ora, a un mese dalla condanna in Cassazione a 20 anni per l’omicidio di cinque pazienti (più due tentati omicidi), si scopre cos’è successo nell’ufficio del personale ospedaliero dal giorno dell’arresto. La Caleffi era una dipendente pubblica, a tempo indeterminato. E la legge prevede che finché la condanna non arriva in terzo grado, l’azienda sanitaria debba erogare comunque lo stipendio.
Tutto regolare, quindi. La Caleffi ha avuto la sua busta paga fino a venerdì scorso, 28 novembre. Visto che era sottoposta a provvedimento disciplinare, prendeva la metà rispetto al guadagno prima dell’arresto. Però è rimasta per quattro anni alle dipendenze del Manzoni, anche se di fatto passava le sue giornate in cella. Seicento euro al mese, circa, più di 7mila euro netti all’anno per quattro anni. Mentre veniva condannata in primo grado a vent’anni, i pagamenti arrivano puntuali e regolari. Anche quando la sentenza è stata confermata in appello, e fino al responso della Cassazione.
Solo ora che la sua condanna è arrivata al terzo grado di giudizio, l’ospedale ha potuto aprire la pratica. E un mese dopo la sentenza, l’azienda ospedaliera ha annunciato «il licenziamento senza preavviso della signora Sonya Caleffi, dipendente dell’azienda». Un provvedimento previsto dal regolamento aziendale e dal contratto nazionale del comparto sanità. Per reati commessi in servizio, bisogna aspettare che la condanna passi in giudicato. A quel punto il licenziamento è un atto dovuto.
Paradossi della legge italiana.
Prima del terzo grado l’ospedale non aveva scelta: «Avremmo fatto volentieri a meno di pagarla - spiega Anna Cazzaniga, responsabile del servizio infermieristico del Manzoni -. Purtroppo l’azienda era obbligata a farlo, visto che si trattava di una infermiera assunta a tempo indeterminato».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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