L’informazione come dovere

Se n’è andato con Enzo Biagi - dopo Montanelli - un altro personaggio simbolo del giornalismo italiano. Con una peculiarità, per Biagi: quella d’essere stato simbolo d’un mondo globale dell’informazione. La sua presenza è stata importante, fino ad apparire talvolta dilagante, sui quotidiani, sui settimanali, nella televisione, nei libri. L’eredità di scritti, di parole, d’immagini che Biagi lascia è immane per dimensioni, e memorabile per il peso che ha esercitato sul Paese, sulle sue convinzioni, sui suoi sentimenti e risentimenti.
Per Biagi non vi fu in gioventù, come per Montanelli, la rivelazione folgorante d’un nuovo straordinario talento. L’ascesa verso i vertici del giornalismo procedette, almeno all’inizio, con gradualità: come si addiceva a un lavoratore infaticabile e a un figlio d’operaio che vedeva in questo suo nuovo mestiere della penna una gratificazione e una promozione sociale.
I primi passi li mosse da cronista, nel bolognese Carlino, ma dopo il trasferimento a Milano - che segnò una svolta nella sua vita - diede subito prova della sua capacità di guidare e stimolare una sua «squadra». Entrato a Epoca come caporedattore, ne diventò rapidamente direttore: e altrettanto rapidamente perse la poltrona per contrasti con l’editore Arnoldo Mondadori. A quel punto divenne inviato della Stampa, e poco dopo debuttò, come narratore di fatti, nella televisione: avviandovi un dialogo con la platea immensa dei telespettatori dal quale gli è venuta la popolarità che ormai nessun foglio, neppure il più prestigioso e diffuso d’Italia, può dare.
Biagi è stato insuperabile nel mettere le sue eccellenti qualità di giornalista al servizio d’una operosità - e d’una facilità nel farne uso - superiori perfino a quelle dell’indimenticabile Orio Vergani. Ma Vergani era, alla maniera antica, un individualista epicureo, e Biagi aveva invece percepito benissimo le possibilità offerte soprattutto da quello sconvolgente mezzo di comunicazione che è il piccolo schermo. Seppe così associare, come meglio non si sarebbe potuto, le sue idee di giornalista a un prodotto sempre collettivo quale è una trasmissione televisiva. Forse inconsapevolmente, e magari anche controvoglia, il cronista curioso e instancabile che era Biagi divenne così un guru, da lui erano attesi non solo opinioni ma anche messaggi. La televisione travolge spesso i suoi interpreti. È accaduto un po’ anche per Biagi: che tuttavia non ha mai abbandonato il suo primo amore, la carta stampata, e ad essa è tornato in esclusiva - per una serie di circostanze spiacevoli - alla fine della sua vita.
Il corpus delle opere di Biagi, per quanto riguarda la carta stampata, è tale da fare invidia agli autori più prolifici. Articoli innumerevoli, e poi saggi, romanzi, volumi autobiografici sfornati ad un ritmo impressionante, più d’un titolo l’anno. Alcuni libri erano raccolte d’articoli o trascrizioni d’inchieste televisive, ma questo non sminuisce il prodigio di questa quasi sovrumana instancabilità. Nulla andava perduto, nell’oliato meccanismo della bottega artigianale di Biagi, ma tutto era frutto di dedizione e fatica.
È stato rimproverato a Biagi di non essersi concessa una pausa nemmeno quando la sorte l’ha colpito - con la morte della moglie e d’una figlia molto amata - negli affetti familiari, e di avere anzi tratto da questi affetti materia letteraria. Ma questa era la sua cifra umana e professionale. La famiglia e il lavoro erano il suo universo, e l’una poteva, anzi doveva intrecciarsi all’altro indissolubilmente.
Nei suoi scritti Biagi portava tre grandi doti: la chiarezza, la vicinanza agli stati d’animo della gente comune, l’umorismo. I lettori sentivano in lui il vicino di pianerottolo, uno di cui fidarsi. Poi l’umorismo, insieme a malinconie crepuscolari. Un umorismo emiliano, quello di Biagi, di apparente consolatoria indulgenza, non tagliente alla Montanelli o sicilianamente cupo alla Brancati. Ma sapeva graffiare, e come. Ultimamente i guizzi d’ironia gli venivano un po’ ripetitivi, si capiva che la vena s’era un po’ inaridita. Succede, con gli anni. Ma di tanto in tanto ritornava la staffilata, che non piaceva a chi la subiva, ma che divertiva gli altri.
Il Biagi televisivo è stato la prova di come ogni regola, in quel campo, possa essere contraddetta. Nel mondo dei lustrini, delle vallette e delle tette, Biagi portava una onesta ma anche sbiadita faccia da bancario o da professore. Quella faccia anonima è riuscita imprevedibilmente a «bucare», come si dice in gergo, il video, più e meglio dello sbracciarsi di certi politici guitti. Aveva messo a punto un programma - Il Fatto - che era costituito da domande in stile notarile e da risposte brevi di personaggi spesso interrogati per interposta persona. Niente polemica, niente clamori, niente sovrapposizioni di voci. E ha funzionato. Quasi un miracolo. Per il quale a Biagi deve essere postumamente reso omaggio.
Biagi non è mai stato al servizio di nessuno. La sua indipendenza non ha avuto macchie. Con ciò non si vuol dire che a questo fustigatore mancassero le antipatie, e nemmeno le simpatie. Ne aveva e come. Amico di molti, ma non agli ordini di qualcuno. E di una integrità indiscutibile. Ci teneva al guadagno e ci teneva al denaro, come capita in particolar modo a chi avesse avuto come lui una infanzia non benestante, essendo il padre vice magazziniere in una ditta di Bologna. Ma una scorrettezza mai. Era politicamente orientato verso un socialismo all’acqua di rose, deamicisiano, gli era simpatico Filippo Turati, non aveva invece trovato un buon feeling con Bettino Craxi. I suoi toni polemici, quando si rivolgeva al Palazzo, non erano mai eccessivi.
Questo fino al giorno in cui dovette fare i conti con l’ascesa politica di Silvio Berlusconi. In tandem con Montanelli, Biagi prese di mira, nei suoi interventi televisivi e nei suoi articoli, il Cavaliere. Che reagì male pronunciando a Sofia quella condanna di Biagi dalla quale è derivata la sua estromissione dalla Rai. Credo che Biagi avesse molto ecceduto, e che Berlusconi abbia sbagliato. Ma queste sono ormai piccole miserie del passato, sulle quali deve posarsi il silenzio solenne della morte.

Inchiniamoci alla memoria di chi ha insegnato agli italiani cose importanti, e la più importante è che la vita va presa come dovere, e non come divertimento.
Finalmente Biagi riposa, dopo tanta fatica, e sono sicuro che - come deve avvenire per gli onesti - riposa in pace.
Mario Cervi

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