L’INTERVISTA 4 MARÍA KODAMA

Se c’è una donna al mondo che può parlare dell’«altro» Borges, quello più vero, quello libero dalla patina passatista e ultraconservatrice che il (povero) spirito mercantile e provinciale del suo tempo e del nostro gli spalmò sopra, questa è lei. Seduta nella sala d’un grande albergo milanese mentre sorseggia il caffè, vestita dell’eleganza del tratto, del dolce sorriso orientale e della calda commozione latina mentre ci descrive l’uomo della sua vita, María Kodama conversa amabilmente di Jorge Luis: el otro, el mismo.
Signora Kodama, Borges è sempre stato recepito come un uomo nemico della modernità, un nostalgico. Dell’Alto Medioevo scandinavo, dell’antica Roma, del Giappone dei samurai, dell’epopea dei gauchos... Ma non è che proprio in ciò consiste, in fondo, la sua modernità?
«L’attualità, la modernità, non esistono. Non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole... Borges era uno che percepiva la relatività del tempo. Intendo proprio la relatività come l’intendeva Einstein. Come Leonardo da Vinci, come Wells, Verne, Raimondo Lullo, aveva questo dono che è di pochi: interpretare la storia non come una linea, ma come qualcosa che si espande, e che soltanto alcuni riescono ad abbracciare».
E che non si dimentica... La proverbiale memoria di Borges.
«Sì. Pensiamo alla rete di Internet. Giustamente Borges ne è stato considerato un anticipatore. Il giardino dei sentieri che si biforcano, uno fra i suoi racconti più affascinanti, che cos’è se non un ipertesto?».
Borges come motore di ricerca. Forse questa è la sua chiave più... stavo per dire attuale...
(La tazzina torna sul piattino, le ultime gocce di caffè possono attendere e gli occhi della signora lampeggiano) «Certo, certo. Pensi che Rodrigo Quian Quiroga, un neuroscienziato argentino che ormai da anni insegna in Inghilterra, dopo aver letto Funes el memorioso (da noi Funes, o della memoria, altro racconto che, come Il giardino, fa parte di Finzioni, ndr) andò a Buenos Aires a visitare la sua libreria: s’era convinto che contenesse testi di fisica, di chimica...».
Così non era, ovviamente. Borges era un letterato. Un cultore della letteratura. Quali i suoi testi di riferimento principali?
«Direi Wells, Kipling, Emily Dickinson. Poi Cervantes. E la Bibbia. Amava molto la Bibbia. Fra i suoi contemporanei, aveva una vera passione per le poesie di Carlos Mastronardi, ne apprezzava la limpieza, la pulizia, la levità. Ed Evaristo Carriego, del quale scrisse la biografia».
Quanto alla politica, invece, ebbe cura di tenersene ben lontano.
«Sempre. Diceva che destra e sinistra sono la stessa cosa. Detestava l’ipocrisia della politica, e da giovane ebbe parole di fuoco contro la rivoluzione russa. Era vicino ai conservatori perché, sosteneva, sono gli unici che non hanno da ganar nada con la politica. Comunque, non si è mai venduto a nessuno. Era un uomo libero nel vero senso del termine».
Del resto, non aveva una sola patria...
«Oh! Sì. Amava il proprio Paese. I quartieri di Baires, e il suo in particolare, Palermo. Ma, essendo un grande viaggiatore, portava nel cuore molti luoghi: Venezia che gli ricordava una fra le sue figure preferite, quella del labirinto; per contrasto la forza, la potenza di New York, la Manhattan di Whitman; e Ginevra. Diceva che a Ginevra capì da ragazzo che cos’è la tolleranza, da come la gente trattava i rifugiati di guerra da ogni parte giungessero. Frequentava il Collège Calvin, dove lo chiamavano Borgès, con l’accento sulla “e”. Così al momento dell’appello, lui non rispondeva fino a quando i compagni non gli davano di gomito... Gli piaceva anche Madrid, e in generale il sud della Spagna, la Spagna araba».
Però lei, signora, lo conobbe tramite un altro mondo, quello antico anglosassone.
«La prima volta che lo vidi avevo cinque anni. Ero una bimba timidissima e lui, senza saperlo, mi diede la prima lezione. Entrò in una sala affollata per tenere una conferenza di filosofia. Ovviamente non capii una parola, ma il fatto di vedere un uomo solo capace di affrontare così tante persone e di parlare pacatamente, come se nulla fosse, mi colpì. “Se ce la fa lui, potrei farcela anch’io”, pensai. Mio padre era un suo ammiratore, così quando, verso i 12 anni (avevo già letto Le rovine circolari), iniziai a scribacchiare qualcosa, decise che dovevo conoscerlo. Me lo presentò. Lui mi chiese se sapevo che cos’è il “sassone”. “È una lingua antica”, risposi. “Bene, lo studieremo insieme”. E così è stato».
E il suo carattere? Un uomo così colto ed elegante può aver avuto, per molti, un effetto respingente...
«Al contrario, era un tipo molto aperto e disponibile. Odiava la volgarità, nel linguaggio e nei modi, ma non era uno che stava a proprio agio soltanto con persone del suo livello. Per esempio, i taxisti di Buenos Aires lo adoravano, s’intratteneva spesso a parlare con loro. E quella volta in Egitto poi...». (Il sorriso diventa una risata argentea)
Che cosa successe?
«Beh, stavamo visitando una piramide. Era buio. Gente con le torce che illumina il cammino. A un certo punto alcuni uomini uniscono le braccia per comporre un sedile e ci fanno sedere Borges, come se fosse una portantina. “Borges, attento alla cabeza!”, gli urlo, preoccupata ma divertita.

E i suoi aiutanti a ripetere in coro “cabisa!, cabisa!”. Lui si volta verso di me e fa: “María ti rendi conto? Chissà che vuol dire cabisa in arabo! Meglio non saperlo”. Che serata!».
Muchas gracias, señora. Borges è anche questo. El otro, el mismo.

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