L’INTERVISTA MARK ROWLANDS

C’è stato un filosofo che ha parlato di lupi. Era Hobbes: homo homini lupus, la violenza di tutti contro tutti. Una fama non proprio di gentilezza, che i lupi si sono trascinati per oltre quattro secoli. Oggi l’americano Mark Rowlands racconta un’altra storia. Quella di Brenin, che in gallese significa «re», il suo lupo di casa. Rowlands, professore di filosofia prima in Alabama e ora a Miami, ha vissuto undici anni con un lupo. Giorno e notte. L’ha portato ovunque con sé, perfino a lezione. Gli è stato accanto fino alla fine. Ora che è papà, Rowlands ha chiamato suo figlio Brenin. E la sua storia è diventata un romanzo, Il lupo e il filosofo: lezioni di vita dalla natura selvaggia, pubblicato in Italia da Mondadori.
Il suo lupo non passava certo inosservato. Come reagivano le persone quando lo portava a spasso?
«In Irlanda erano terrorizzati, in Francia i bambini ci giocavano, gli buttavano le braccia al collo. Negli Stati Uniti la gente è più taciturna. Credo che i miei vicini fossero spaventati, ma non me l’hanno mai confessato».
E i suoi studenti all’università?
«Nessuno si è mai lamentato. Lui aspettava tranquillo, sotto la cattedra. Al massimo annusava in giro. Se la lezione era troppo noiosa ululava».
Dice di aver scoperto di avere un lupo nell’anima. Che significa?
«È la metafora di una parte di noi, quella più nascosta: quella che non ha interesse a calcolare, ingannare, manipolare gli altri. Brenin era completamente onesto: non mentiva mai. A differenza degli uomini».
I lupi sono migliori?
«Negli uomini c’è una parte che calcola sempre, che considera gli altri in termini di vantaggi e svantaggi. L’intelligenza umana è legata all’inganno. E questo si vede già nelle scimmie: all’origine c’è anche un rapporto diverso con la sessualità, che spinge a imbrogliare o a fare alleanze con il solo scopo del piacere. I lupi invece si preoccupano poco del sesso e sono onesti, aperti».
Possiamo imparare?
«Più che altro è una parte di noi che dobbiamo lasciar emergere. E il lupo ci aiuta a scoprirla».
Insomma suggerirebbe a tutti un lupo come animale domestico?
«Direi di no. Sono stato fortunato: potevo portare Brenin ovunque, anche alle feste. Se l’avessi lasciato da solo sarebbe stato infelice. E mi avrebbe distrutto tutta la casa».
Un lupo è molto diverso da un cane?
«Diciamo che gioca in modo diverso, più serio. Non ama riprendere il bastoncino, quando ci ho provato mi ha sempre guardato come se fossi un idiota».
E come l’ha addestrato?
«Non è stato difficile. Gli ho insegnato solo i comandi fondamentali: fermo, vieni qui, vai. Di solito lo portavo in giro vicino a me, ma senza guinzaglio. Mi ha sempre ascoltato, anche nelle campagne irlandesi, quando camminavamo in mezzo alle pecore».
E le pecore erano tranquille?
«All’inizio erano un po’ nervose, ma si sono abituate. Brenin non ha mai spaventato o attaccato nessuno. Perdeva la calma solo se incontrava un grosso cane».
Niente a che fare con lo stereotipo del lupo selvaggio?
«Non era mai violento.

Certo un lupo non è per tutti, ma io ho imparato a essere un uomo, un adulto, anche grazie a lui».
È vero che lo considerava un fratello?
«Sì. Un fratello più piccolo da proteggere e, insieme, uno più grande da emulare, per la sua onestà e la sua forza».

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