L’intervista a Natsuo Kirino

nostro inviato a Mantova

L’isola come ritorno: Itaca. L’isola come prigione: il regno di Calipso. L’isola come metafora della società: Il Signore delle mosche. L’isola come evasione dalla realtà: l’Isola che non c’è. L’isola come sistema filosofico: Lost. I filosofi dicono che ogni uomo è una piccola isola. E Michel Houellebecq scrisse un romanzo-filosofico sull’uomo intitolato La possibilità di un’isola. Il mito, la letteratura, il cinema, la fiction televisiva hanno sempre trovato sull’isola un eccellente ambiente creativo, secondo un curioso rapporto di proporzione tra qualità narrativa del plot e caratteristiche geografiche dell’isola. Di solito più il luogo è piccolo, inospitale e deserto, maggiormente affascinati e misteriose sono le storie che vi prendono vita.
Alla regola non sfugge il romanzo L’isola dei naufraghi (Giano, pagg. 330, euro 17; trad. Gianluca Coci) di Natsuo Kirino, scrittrice superstar nata nel 1951 a Kanazawa, un’antica città del Giappone centrale, che ha scioccato il Sol Levante con i suoi libri estremi, e ora per la prima volta in Italia, a Mantova, dove è l’unica vera vip del festival. Altera ed elegante, gira seguita da tre editor, una assistente personale, un fotografo e l’interprete. Sayonara.
Lei è considerata uno dei grandi nomi della letteratura contemporanea giapponese, ma si infastidisce se accomunata a Haruki Murakami...
«Non abbiamo quasi nulla in comune dal punto di vista stilistico, forse siamo stati solo influenzati, per questioni generazionali, dagli stessi scrittori americani: Faulkner, Chandler, Fitzgerald... Nient’altro, credo».
So che si è infastidita quando ha scoperto che in Italia il suo romanzo è stato «venduto» come una sorta di Lost in salsa giapponese.
«Non ho mai visto Lost, ne ho solo sentito parlare. Ma il mio libro uscì a puntate su una rivista di Tokyo fra il 2004 e il 2008. Quindi prima del grande successo della serie televisiva».
Il suo libro è un tour de force narrativo attorno all’idea-portante di 35 uomini e una sola donna costretti a vivere su un’isola deserta. Tra misteri, violenze e brutalità.
«Nel 1945, verso la fine della guerra, trenta soldati giapponesi naufragarono sull’isola di Anatahan, dove oltre agli indigeni viveva solo una giovane coppia. L’uomo morì presto in circostanze misteriose, e lei, una ragazza di 25 anni, rimase l’unica femmina sull’isola, diventando l’oggetto del desiderio e di contesa di quel gruppo di uomini. Tanto più che, dopo la morte del marito, la donna si risposò con uno dei soldati, suscitando invidie e rivalità, tanto da rischiare di essere eliminata in nome della sopravvivenza della comunità dei naufraghi. Ecco: il mio romanzo racconta di un uomo e una donna, marito e moglie, reclusi da tempo su un’isola deserta al largo di Taiwan dove approdano due gruppi di naufraghi: prima 24 maschi giapponesi, poi undici cinesi. Mi interessava capire cosa si sarebbe scatenato in una situazione estrema come quella».
Nel romanzo il marito precipita giù da una scogliera, la donna diventa la regina-schiava degli uomini e viene obbligata risposarsi ogni due anni con un componente diverso del gruppo, scelto con un sorteggio rituale.
«La donna prima è l’elemento distruttivo della comunità, perché desiderata da tutti, poi diventa il punto di equilibrio, quando viene divisa tra gli uomini. Ma quando inizia a perdere il proprio potere, la situazione precipita. Non le resta che scappare».
Cioè emanciparsi. Il romanzo è lo specchio della società giapponese?
«Il ruolo della donna in Giappone sta subendo una grossa trasformazione. Sono sempre di più le donne che gestiscono la famiglia e contemporaneamente lavorano. Hanno acquistato progressivamente maggiori responsabilità, forza, potere in un mondo fino a poco tempo fa rigidamente maschile. Quando la donna diventa consapevole di questo suo nuovo ruolo, le possibilità che una società - o una comunità su un’isola - trovino il punto di equilibrio, aumentano».
I suoi romanzi precedenti come Le quattro casalinghe di Tokyo che massacrano il marito di una di loro o Real World in cui un gruppo di amiche copre il loro amichetto matricida, hanno suscitato reazioni molto dure in Giappone.
«Forse non tutta l’opinione pubblica era pronta ad accettare la possibilità che le donne arrivassero a un livello di “indipendenza” tale, cioè fare a pezzi il marito, e magari apparire delle eroine. I maschi giapponesi si sono spaventati».
Natsuo Kirino non è il suo nome. È vero che si è scelta uno pseudonimo maschile per non essere censurata?
«No, in realtà Natsuo Kirino è un nome equivoco, che in giapponese può essere sia maschile che femminile.

L’ho scelto perché da noi i lettori sono molto influenzati dal fatto che l’autore di un libro sia maschio o femmina. Con un nome ibrido, almeno all’inizio ho evitato preconcetti».
L’hanno paragonata a Chuck Palahniuk. Forse per la violenza e la brutalità delle storie.
«O forse solo perché ci leggono gli stessi ragazzi».

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