Negli anni '80, Eugenio Scalfari si vantava di essere al centro di tutti i giochi e assediato da Eccellenze desiderose del suo consiglio. Non si muove foglia che Scalfari non voglia, era il motto del suo gonfio blasone. Anche la presidenza di Romano Prodi all'Iri è stata, a suo dire, farina del proprio sacco.
L'Istituto zoppicava. C'era bisogno di una svolta. Il segretario della Dc, Ciriaco De Mita, ci rimuginava da giorni finché decise di chiedere lumi a Scalfari che riassume così la vicenda. «Quando De Mita mi disse: Ovviamente ho in mente Prodi per l'Iri, io gli risposi: Ovviamente fai benissimo. Ma poi mi richiamò e mi disse: Guarda che Prodi non ci sta. Allora io telefonai a Prodi e gli dissi: Tu hai l'obbligo di accettare. Parlate tanto di spirito di servizio e poi.... E alla fine accettò». La sintesi, efficace, è però vanagloriosa. Mette in luce la maggiore autorità di Scalfari rispetto a De Mita, ma oscura le altre illustri paternità di Prodi alla presidenza Iri.
È l'autunno 1982 e capo del governo è il segretario del Pri, Giovanni Spadolini, primo laico a Palazzo Chigi. Romano ha già fama di essere una «riserva della Repubblica», ossia un uomo disponibile al bisogno. È il ruolo che ricoprirà per un ventennio. Assopito nell'università, ma annodato a Beniamino Andreatta, Prodi era già stato, grazie a lui, ministro per qualche mese nel '78. Si era poi tuffato in Nomisma, lasciando che fosse Nino a programmargli le tappe successive.
Giunta la crisi dell'Iri, Romano era in posizione chiave. La sua forza stava nella proprietà transitiva che, tra gente di Palazzo, significa che se A è amico di B e B amico di C, anche A e C sono amici. Prodi, considerato dc di sinistra, perché tale era Andreatta, già consulente del defunto Aldo Moro, era pure pupillo di De Mita, che di Moro era l'erede. Inoltre Andreatta era l'anima del centro studi Arel, di cui era finanziatore l'ingegner Carlo De Benedetti, il quale era intimo di Scalfari che aveva perciò steso la sua ala su Romano, che di Andreatta era il protegé. Infine il premier, Spadolini, che era compagno di partito di Bruno Visentini, il quale era legato a De Benedetti proprietario della società Olivetti di cui Visentini era presidente, non poteva non vedere di buon occhio Prodi che era nella manica di tanti cari conoscenti.
Ricostruita la filiera, torniamo al racconto di Scalfari per coglierne un particolare: la ritrosia di Romano a accettare l'incarico che De Mita gli offriva. Farsi pregare, minacciare le dimissioni e dimettersi effettivamente, è stata una caratteristica di Prodi. È la qualità fondamentale delle riserve repubblicane, che devono essere a disposizione, ma pronte a sgombrare. Capostipite fu Enrico De Nicola, primo capo dello Stato nel 1948, che rifiutava, accettava, si dimetteva e restò in pole position fino alla morte. Ci imbastì una carriera Giovanni Leone, ci si adeguò da vecchio Amintore Fanfani, rimediando una presidenza del consiglio a 80 anni. Campione vivente di questo «spirito di servizio» è Giuliano Amato. Seguendo la scuola, Romano ha tagliato tutti i traguardi. Le inspiegabili altezze che ha raggiunto, si spiegano così. Ma il meccanismo funzionava finché c'era Andreatta a cavarlo dal cilindro e a riproporlo all'attenzione. Ora che da sei anni deve badarsi da solo, c'è da dubitare che Prodi sia altrettanto pronto a tirarsi indietro. Il pacioso emiliano è cambiato. Ha ormai il potere nel sangue e si vede a occhio che è cresciuto in grinta e cattiveria.
Romano diventa presidente dell'Iri il 24 settembre '82 e resta in carica fino al 2 novembre 1989. La stampa accoglie con favore la sua nomina, compreso questo giornale, e lo seguirà con simpatia per tutto il settennato. Nessuno gli fa le pulci e a fine mandato Prodi proclama di avere restaurato l'Iri. Ne ha venduti pezzi per fare cassa e i bilanci sono accettabili. Quello che lì per lì nessuno dice, ma sarà stradetto dopo, è che a fargli fare buona figura è stato Pantalone. Lo Stato, cioè voi e io, ha versato nei forzieri dell'Iri prodiana tanti di quei soldi da rendere impossibile un giudizio sulla sua conduzione. Romano poteva anche amministrare come una capra, tanto pagava il governo. Sono anni in cui l'Italia sballa i conti e contrae il più stratosferico debito pubblico del pianeta. Il contributo di Prodi al disastro è da Oscar. In sette anni, l'Iri ottiene fondi per 41mila miliardi di lire. Una volta e mezzo di ciò che aveva incamerato dalla fondazione, 1933, all'ingresso del Nostro.
Diverse le iniziative di Prodi che, dispiace dirlo, sono state autentiche cappellate.
La prima, 1985, è lo sciagurato tentativo di semiregalare all'amico De Benedetti la Sme, ovvero i Panettoni di Stato. La società raggruppa aziende private fallite e prese in carico dall'Iri, come Motta, Alemagna, Star, Cirio. Prodi, di testa sua, concorda con la Buitoni di De Benedetti un prezzo di acquisto di 497,5 miliardi pagabili in vari anni. La somma è irrisoria: 930 lire per azione, contro le 1.290 della quotazione in borsa. In più, nelle casse della Sme ci sono 80 miliardi liquidi che finirebbero quatti quatti nelle tasche dell'Ingegnere compratore. Si imbufalisce Bettino Craxi, presidente del Consiglio, e richiama all'ordine Clelio Darida, ministro delle PpSs. Darida annulla il patto Prodi-De Benedetti e indice una gara al miglior offerente. Un gruppo di imprenditori, Berlusconi, Barilla e altri, è disposto a pagare di più. L'Ingegnere prende cappello e ricorre al Tribunale, che gli dà torto. Seguono appelli, cause e controcause, fino ai nostri giorni, con la sorpresina finale del Cavaliere, accusato di corruzione di giudici e tutto il bla bla. La lizza sfuma e nessuno compra. Anni dopo, tra il '93 e il '96, la holding è venduta a spizzichi, pelati qua, panettoni là, e il ricavo è sublime: 2.200 miliardi. Quasi cinque volte il prezzo fissato da Prodi: prova provata che lui coi numeri è in guerra.
Prima dell'accordo con l'Ingegnere, Romano aveva rifiutato una proposta di acquisto della Sme da parte della multinazionale Hainz. Latore, il ministro liberale dell'Industria, Renato Altissimo, al quale replicò: «La Sme non si tocca. È la cassaforte dell'Iri». Quando seppe che invece vendeva la cassaforte a Carlo De Benedetti, Altissimo telefonò arrabbiato a Prodi: «Perché a Carlo sì e a me hai detto no?». «Tu mica ce l'hai il taglietto sul pisello!», rispose Prodi con fine allusione alle origini ebraiche dell'Ingegnere. Il dialogo è negli atti di un processo.
L'anno dopo, 1986, ne combina un'altra. Inalberando per le auto lo stesso nazionalismo cipigliosamente rimproverato a Antonio Fazio per le banche, vende l'Alfa Romeo alla Fiat. A discapito della Ford che offriva di più, in soldi e certezze. Agli Agnelli, coi quali ha un antico rapporto di cui parleremo, fa sconti mostruosi e rateazioni da capogiro. «Hanno avuto l'Alfa per un boccone di pane», è il giudizio unanime dell'epoca. In cambio, promettevano rilancio e occupazione. Si sa come andata. Le Alfa in circolazione sono meno delle Torpedo e le maestranze residue sono sotto tutela del Wwf. Ora capite perché Cesare Romiti, che orchestrò l'affare, sia oggi tra i fan di Romano. Vale pure per l'Agnelli adottivo, Luca Cordero di Montezemolo, che esprime la gratitudine della famiglia con impallinamenti diuturni del Cav.
L'operazione è stata anche una sconfitta dell'economista Prodi. Incamerando l'Alfa, Fiat ha avuto il monopolio dell'auto italiana e si è impigrita. A furia di Panda, si è semplificata la vita, si sono ringalluzziti i giapponesi e Mirafiori è finito nella Caienna. E il Professore, che ha aiutato Fiat a farsi male, ha tradito Adamo Smith e il libero mercato che predica un giorno sì e l'altro pure.
Quando Prodi arriva all'Iri, la siderurgia è in grave crisi. Il problema è di tutto l'Occidente che produce troppo rispetto al bisogno e troppo caro rispetto agli arrembanti asiatici. L'Iri ha la palla al piede della Finsider che deve ridurre personale e produzione. Questione delicata che Romano vuole seguire di persona. Ha un'idea da duca rinascimentale. Nomina alla Finsider un presidente, Lorenzo Roasio, e un amministratore delegato, Sergio Magliola, dando a entrambi identici poteri. Costringe i due a litigare per le competenze e a ricorrere a lui per l'arbitraggio. Così, il Machiavelli di Scandiano ottiene l'auspicata ultima parola e avvia la Finsider, demotivata e depressa, all'ultima dimora.
Nell'89, disarcionato il protettore De Mita da Palazzo Chigi, Prodi è costretto a lasciare l'Iri al fiduciario andreottiano, Franco Nobili. Poco male. C'è da lavorare sodo su Nomisma il cui lustro è stato appannato dalla sentenza micidiale del giudice Casavola. Romano si getta in un'opera triennale di rilucidatura mentre cominciano, a macchia, come la peste, gli arresti di Tangentopoli. Nobili è catturato il 12 maggio '93. Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio, telefona personalmente a Prodi per pregarlo di riprendersi l'Iri. Romano tergiversa, chiede tempo e inforca la bicicletta (Bianchi, le sue sono tutte rigorosamente di questa marca) per meditare in pace. In sella riflette meglio che sulle diverse poltrone che ha di volta in volta occupato, all'Iri, al governo, nell'Ue. Per ore, è introvabile, mentre la moglie Flavia argina Ciampi che continua a tempestare di telefonate. Al rientro, con le endorfine alle stelle, Romano dice sì. Il 15 maggio, inizia la presidenza bis. La caratterizza con le privatizzazioni, la nuova moda. Vende le due banche Iri, Comit e Credit, ai piccoli risparmiatori per creare, moda nella moda, un democratico «azionariato diffuso». Il vecchio Cuccia di Mediobanca, che voleva invece il «nocciolo duro» di un gruppo scelto di azionisti, gli toglie il saluto. La vittoria di Prodi è breve. Cuccia prende presto il controllo delle due banche senza neanche versare le enormi somme che aveva promesso all'Iri per ottenere il «nocciolo».
A togliere Prodi dall'imbarazzo, pensa Berlusconi vincendo le elezioni del '94. Non volendo conviverci, Romano proclama: «Non sono uomo per tutte le stagioni» e si dimette. L'Iri per un po' è salva.
(4. continua)
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