L’Italia ormai è fatta, invece sugli italiani c’è molto da lavorare

Caro Dott. Granzotto, che fine ha fatto l’interessante dibattito, ospitato da Mario Cervi nella sua «Stanza», relativo al Risorgimento e alla conseguente Unità d’Italia? Seconda domanda. Ammettiamo, come mero esercizio teorico, che da qui a qualche anno divenga dominante e diffuso il cosiddetto revisionismo storico sull’Unità (per intenderci, quale lei stesso ebbe a prospettare nella sua risposta pubblicata sul Giornale del 24/8/2003 sotto il titolo «Unità d’Italia: il fine non giustifica i mezzi», ampiamente riportata in internet): crede che ne deriverebbero conseguenze di ordine pratico? E quali?
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Alla domanda numero uno lascio rispondere l’amico Mario Cervi, caro Sacchetti, e stia certo che lo farà. Quanto alla seconda, no: la rilettura spassionata dell’epopea unitaria, non condizionata da quelle esigenze diciamo così imperialiste che condizionarono la vulgata risorgimentale, non avrà conseguenze di ordine pratico. Non certo quelle di ridisegnare la geografia politica dello Stivale: fatta l’Italia una e indivisibile, una e indivisibile rimane. Potrà servire, caso mai, a concludere un processo che è sempre andato a rilento e di malavoglia: fare gli italiani. È imbarazzante affrontare questo argomento a centocinquant’anni dalla proclamazione del Regno, ma dobbiamo pur ammettere che i Padri della Patria ben poco fecero per far emergere nelle coscienze i valori dell’etnos, del collante che fa di un gruppo umano un popolo consapevole di sé. Diedero sì alla nuova realtà nazionale leggi e strutture unitarie, ma non seppero - o non vollero, via - togliere di mezzo quel solco che alla caduta dell’impero romano divise la Penisola in un nord barbarico e un sud greco bizantino (e per la Sicilia arabo). Linea di frattura che ancora lì sta e che ovviamente costituì un potente antidoto al nascere d’una italianità non solo diffusa, ma anche convinta (Nel suo pregevolissimo L’identità italiana, Ernesto Galli della Loggia fa un’osservazione molto pertinente e cioè che «al cuore di tali problemi vi è una contraddizione di natura storico-geografica che potrebbe essere compendiata - e semplificata - così: l’Italia non ha mai avuto la fortuna d’essere occupata per intero da un medesimo invasore»).
Non sta bene, non è risorgimentalmente corretto affermare che il Savoia fu un invasore, figura ch’egli seppe evaporare negli alambicchi dei Plebisciti sui quali per carità di patria è meglio tacere. Ma anche nei panni del «liberatore» non portò purtroppo a termine l’opera, ispirando per di più un clima antimeridionalista e pertanto antiunitario del quale ancora paghiamo le spese. Lasciò (volle?) che prendesse corpo quel pregiudizio - il sud inteso come «Affrica» - che condusse i funzionari, i burocrati e i travet provenienti da Cuneo, Poirino, Carmagnola o Pinerolo - cittadine notoriamente illuministe, aperte e spumeggianti - inviati in missione nelle terre «redente» a trattarvi gli abitanti, ora «italiani», come fossero dei baluba o comunque, per dirla con D’Azeglio, da «gente senza morale, senza coraggio, senza cognizione. Dei caffoni. Dei farabutti». Quello che era al terzo posto tra le nazioni più evolute in Europa, primo in Italia, precipitò subito al rango di colonia abbandonata a se stessa, e i colonizzati non poterono dunque far altro che affidarsi all’arte di arrangiarsi. Ora è un po’ tardi, caro Sacchetti, per porre rimedio.

Ma qualcosa si può fare: a esempio cominciare a riconoscere gli errori commessi, anche se a costo di smantellare la vulgata risorgimentale coi suoi pennacchi e i suoi bric-à-brac deamicisiani.

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