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L’Italia piange i suoi figli e Bossi non si dà pace: «Li abbiamo mandati noi»

RomaSei ragazzi, sei parà. Erano andati a Kabul «per costruire la pace», ora sono dentro sei scatole di legno avvolte nel tricolore e trasportate in giro per la città su dei camion militari. Quando passano davanti al Colosseo, la gente applaude, sventola le bandiere e grida «siete i nostri eroi». Quando arrivano a San Paolo, Napolitano s’inchina, Berlusconi si batte il petto, Fini piange, Bossi è sconvolto e si smarca ancora: «Li abbiamo mandati noi, adesso sono morti». Quando entrano nella basilica, li accoglie una folla silenziosa e commossa.
Il cielo è grigio e gonfio di nuvole, ma è un’Italia orgogliosa e a colori quella che li aspetta per l’ultimo saluto. C’è la macchia blu dei politici, il marrone delle divise dei commilitoni, l’oro della chiesa, il nero dei vestiti dei parenti. C’è soprattutto il rosso amaranto del basco di Martin, sette anni. Suo padre Antonio Fortunato, è dentro una di quelle bare. Lui si avvicina, carezza la foto, poi, quando il trombettiere suona il Silenzio, si mette sugli attenti e fa il saluto militare.
La chiesa è piena, tantissimi sono rimasti fuori. In diecimila in queste ore sono andati nella camera ardente al Celio e a migliaia adesso accompagnano il tragitto dei feretri lungo via Ostiense. Nella basilica, Berlusconi abbraccia tutti i familiari delle vittime. Alle 11 monsignor Vincenzo Pelvi, ordinario militare d’Italia, legge un messaggio del Papa che prega «affinché Dio sostenga quanti si impegnano ogni giorno per costruire solidarietà e pace». La Chiesa, spiega il vescovo all’omelia, è vicina ai militari italiani e alle scelte del Paese: «Se uno Stato non sa proteggere la propria gente da violazioni gravi e continue dei diritti umani, la comunità internazionale è chiamata ad intervenire».
E proprio questo stavano cercando di fare i sei eroi di Kabul. Monsignor Pelvi si rivolge a loro, li chiama uno ad uno, ha parole dolci come se fosse un vecchio zio. «Tu Antonio, ti chiamavano il gigante buono perché eri sempre pronto a dare una mano a chi ne aveva bisogno. Ci consegni un’Italia più libera e coraggiosa. E tu Matteo, eri un ragazzo che amava la vita. Sei un grande, così dicevano di te i tuoi amici. Eri legato alla tua terra e sognavi un futuro di pace per l’umanità e il tuo lavoro ti ha portato lontano a difendere chi era minacciato dal terrorismo. Tu, Massimiliano, non ti sei mai tirato indietro di fronte alle responsabilità e sei andato a Kabul per portare sviluppo e stabilità. Quanto a te, Roberto, eri un giovane innamorato della vita e della famiglia. Sei andato in Afghanistan per gettare le fondamenta su cui le generazioni future costruiranno la pace. Giandomenico, tutti ti conoscono come un uomo dalla fede semplice e sincera. La tua è stata una chiara lezione di serenità evangelica. E tu, Davide, come nei tuoi sogni sei stato un pacificatore e un custode della concordia civile».
Sistemati a fianco all’altare, tristi ma orgogliosi, ecco i parenti. «L’Italia si è stretta attorno a noi - dicono -, siamo stati sostenuti. Di questo siamo contenti». L’Italia delle istituzioni è all’inizio della navata sinistra. Ci sono un po’ tutti, maggioranza e opposizione. Napolitano è in piedi, con le mani lungo il corpo. Berlusconi si batte il petto al momento del mea culpa. Fini ha le braccia conserte e il viso abbassato. Più indietro, con la tunica nera bordata d’oro della preghiera del venerdì, c’è anche Mohammed Nour Dachan, presidente dell’Unione delle comunità islamiche.
E l’Italia del popolo è tutta intorno ai sei ragazzi. Ci sono anche i quattro feriti di Kabul. Sono arrivati la notte scorsa, contro il parere dei medici. «Non potevamo mancare», spiegano. Erano sul secondo Lince, l’onda d’urto è stata terribile, ma uno di loro è riuscito a filmare con un cellulare quello che è successo dopo l’agguato. Una volta usciti dal blindato, hanno raccontato ai magistrati, hanno sentito del colpi e hanno sparato anche loro. In aria, per evitare atti di sciacallaggio. Il video sarà adesso esaminato dal pm.
Arriva lo scambio del segno di pace: Berlusconi e Fini si stringono la mano proprio mentre un uomo sulla sessantina conquista il microfono e urla due o tre volte «pace subito» prima che la sicurezza riesca a bloccarlo. Più tardi si scoprirà che aveva già interrotto anni fa un festival di Sanremo. Gridano anche fuori dalla chiesa, quando escono le bare portare a spalle dai paracadutisti. «Folgore, Folgore», ma si sente anche un «Ritirateli» e un «Quanti morti ancora?» sommersi però dagli applausi. In piazza pure i ragazzi di un liceo di Piedimonte Matese. «È una lezione anche questa», dice la loro professoressa di latino.
Bossi intanto spiega la sua posizione: «Ho votato a favore della missione, eravamo convinti che servisse, non a farli morire. Certo, il problema è internazionale, però speriamo di portarne a casa qualcuno per Natale». Ma la spedizione continua, dice La Russa: «Resteremo finché gli afghani non saranno in grado di difendersi da soli, è pericoloso parlare di exit strategy».

Passano le Frecce Tricolori, il ministro guarda la folla che batte le mani: «È una manifestazione bella e spontanea, non c’è niente di preparato o di retorico, l’affetto dell’Italia verso i nostri ragazzi è vero».

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