Roma - José Maria Aznar è arrivato a Roma quando ha appena smesso di piovere. L’alluvione è uno spettro, quasi un simbolo che cade su questi tempi dove si ha paura persino a sperare. La gente, qualche giorno fa, osservava gli argini del Tevere, in attesa del peggio. Il fatalismo è la colonna sonora di questo Natale. L’ex premier spagnolo è qui per presentare il suo libro. Accanto a lui c’è Gianfranco Fini, si conoscono e da anni. «La lettera a un giovane spagnolo» è la ricetta di una vita intera. Aznar si racconta. Parla dei suoi valori, di ciò che ha visto e di ciò che ha letto. È soprattutto un manifesto contro la paura. La crisi è un toro. Evoca la morte. Ma va guardata in faccia, sfidata, combattuta. Non si può restare paralizzati: «Questo è il tempo degli analisti e degli economisti. Ma attenti, perché gli errori si commettono anche da fermi». Aznar dice che non esiste una ricetta spagnola. Non ci crede. Questo è un affare globale, nessuno può pensare di tirarsi indietro. «La lettera - dice - potrebbe essere dedicata a un ragazzo francese o italiano, non cambierebbe niente». Santiago è un ragazzo che sogna il ritorno di un altro ’68. È un po’ in tutti i ragazzi greci che lanciavano pietre contro un sistema di precariato e che ora si aspetta risposte, sicurezze. Proprio ora che il mondo si è fermato, che respira più piano per risparmiare energie.
Chi ha sbagliato in questa crisi: banchieri? Politici? Economisti?
«La gente. Gli sbagli sono causati da decisioni sbagliate della gente. In questo caso è stato un insieme di cause. Un difetto di meccanismo prima di tutto politico. Le riforme sono la vera soluzione. Bisogna rispondere con maggiore competitività, con riforme del lavoro flessibili. Un discorso che io avevo già iniziato e che poi il governo Zapatero ha bloccato».
Si parla di un ritorno di economisti e intellettuali New Deal. E si accusa il liberalismo di aver fallito. La cultura del libero mercato è al tramonto?
«No, la cultura del libero mercato è ancora valida, anzi, va difesa. Non credo nel New Deal. Funziona nel breve periodo, ma il costo futuro è troppo alto. Non basta scavare buche e poi riempirle per dare una scossa all’economia. In questo modo fai tanta polvere, spendi tanto, risolvi poco e chi viene dopo deve ripagare tutti i debiti».
Ricorda i suoi primi passi in politica? Chi erano i suoi maestri?
«Sono sempre stato liberale. I miei maestri sono stati Ortega, Popper, Churchill, Smith ho imparato da loro e con loro. E ho capito una cosa: Tocqueville ha vinto su Marx. La storia ha confermato la sua vittoria».
Tra Italia e Spagna qual è il Paese più liberale?
«Credo che la Spagna abbia una cultura più liberale del vostro Paese. Ci crede, in modo viscerale, per carattere e vocazione».
Questa crisi economica, però, rischia di scombinare tutto. Teme che possa far crollare il modello economico spagnolo?
«Credo che tra tutti i Paesi europei, quello che più soffrirà è proprio quello spagnolo. La crisi che si abbatterà sulla Spagna sarà molto pesante. Molto più che in Italia. Abbiamo già iniziato a vedere i primi problemi. La bolla immobiliare per esempio è la punta di questo iceberg. La Spagna è già entrata in recessione».
Qual è la ricetta per uscirne?
«Credo che gli Stati Uniti abbiano intuito la strada migliore da prendere. Noi dovremmo seguirli, adottare riforme, avere una politica aperta, incrementare il libero mercato, garantire gli aiuti da parte dello Stato senza però chiudersi in un sistema. Gli altri, quelli che si bloccheranno nella paura, che avranno timore di investire resteranno indietro e perderanno. E la Spagna in questo momento ha tutte le carte per perdere».
Cosa dovrebbe fare il governo di Zapatero?
«Purtroppo il governo ha dimostrato tutta la sua incapacità in questo grave momento. Non solo ha continuato a negare la crisi per diversi mesi, ma nel 2004 ha interrotto le riforme del lavoro, e ha bloccato tutto il discorso di politica economica all’interno dell’Ue che avevo iniziato. E oggi non ha ancora un piano preciso per evitare il fallimento».
Secondo lei la Spagna che ruolo ha avuto nella geopolitica di questi anni?
«Fino al 2004 è stata uno dei principali Paesi che ha contribuito alla realizzazione dell’Europa. E poi, l’Europa nasce come difesa dell’espressione popolare. Mi chiedo, quante volte bisogna sottoporre il trattato agli irlandesi? La soluzione è riflettere, non costringere un popolo a firmare».
Che cosa rappresenta la Patria dentro un’Europa debole?
«La Patria è il legame che unisce i figli ai padri. L’Europa è la difesa del patriottismo: non deve essere confuso con il nazionalismo che invece ha sempre bisogno di un nemico esterno per esistere.
Qualcuno sostiene che la Patria sia un ricordo franchista.
«Questo qualcuno non ha capito nulla».
In Italia la guerra civile ideologica forse non è mai finita: la Spagna ha fatto i conti con il franchismo?
«Fernando Savater, intellettuale di sinistra, ha detto: “Ci sono più anti-franchisti oggi che 30 anni fa”. Io dico che nessuno può riscrivere la storia, nessuno può vincere una guerra che ha perso 30 anni fa. È un dibattito inutile e dannoso. La Spagna ha fatto i conti con il proprio passato durante gli Anni della Transizione. Ora Zapatero, di tanto in tanto, tira fuori una statua e una commemorazione per le vittime. Questa strategia di riaccendere gli animi è solo strumentale. Fatta per nascondere i problemi reali».
Cosa la spaventa di più di questa Europa?
«Il relativismo: la verità ridotta a gusto personale. Il nichilismo, che è il primo passo verso l’intolleranza e il multiculturalismo, che ha dimostrato d’essere un grande fallimento. La legge deve essere uguale per tutti. Islamici compresi».
In Spagna sopravvive ancora un’anima islamica: crede nell’integrazione? È possibile?
«Sì, certo, l’integrazione è possibile a certi patti. Come libertà non è gratuita. L’islam integralista, il nazionalismo e il relativismo religioso sono le tossine della società. Gli immigrati devono rispettare i valori del Paese ospitante».
In Italia la sinistra sta vivendo una crisi storica. Il Pd non è riuscito ancora a trovare una propria identità. Come valuta, da osservatore straniero, il rapporto tra Veltroni e Di Pietro?
«Non posso giudicare la politica italiana, ma so per certo che la crisi della sinistra è un problema non solo italiano ma europeo. Sono caduti i principi su cui si basava».
Per esempio?
«Prendiamo il discorso della libertà: per la sinistra si è sempre parlato di una libertà da: dalla fame, dalla povertà. Per la destra il concetto di libertà è parte dalla grande opportunità della meritocrazia. Per la destra si deve essere liberi di essere se stessi, liberi di partire dalle stesse opportunità. È una prospettiva completamente diversa».
Di Pietro si è inventato una sorta di “partito etico”. Esiste qualcosa del genere in Spagna? Cosa pensa di un partito che si definisce etico?
«Non so cosa voglia dire un partito etico, so che tutti i partiti dovrebbero fondarsi su principi morali ben definiti. L’idea di un partito etico mi fa sorridere».
Cosa manca alla destra italiana per completare il suo percorso?
«Essere uno. L’unità, come quella che ha tentato di realizzare Berlusconi con la Casa delle Libertà è la strada giusta».
Cosa pensa di Obama?
«L’elezione di Obama è stata sicuramente uno dei cambiamenti storici più grandi della storia, più per l’estero che per loro stessi. Ci sono grandissime aspettative. Ora dopo tanti discorsi bisogna vedere la pratica.
È vero che diventerà il presidente del Real Madrid?
«È un sogno che ho da quando sono bambino. Ma non ho le carte in regola per diventarlo. E poi ora sono già molto impegnato».
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