L’italiano difeso per legge: contro «budget» e «tax day»

In un ironico articolo sul nostro giornale, dedicato alla rivoluzione culturale del Bifidus, Caterina Soffici non avrebbe potuto scrivere meglio. Ha affermato che «un popolo perde la sua identità quando perde l’uso della lingua madre». Una constatazione di semplice buonsenso, è chiaro. Ma purtroppo ai giorni nostri non è moneta corrente. Del resto, piove sul bagnato. Non a caso la benemerita Accademia della Crusca è con l’acqua alla gola. Priva di mezzi, è costretta a ridimensionare i suoi programmi. Ed è inutile sperare che il governo Prodi, la regione Toscana e il comune di Firenze allarghino un po’ i cordoni della borsa. Perché, a quanto pare, la lingua italiana è l’ultima delle loro preoccupazioni.
Non la pensa così il nostro Parlamento. Fin dalla XIII legislatura sono fioccate proposte di legge volte a inserire nell’articolo 12 della Costituzione un codicillo del seguente tenore: la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano. Il primo a farsene parte diligente alla Camera è stato l’aennino Pietro Mitolo. Si sono poi posti sulla sua scia la finiana Angela Napoli e l’intero gruppo di An, primo firmatario il capogruppo Ignazio La Russa. Infine si sono associati il verde Marco Boato e il margheritino Roberto Zaccaria. Intendiamoci, si tratta del classico uovo di Colombo. Fatto sta che nessuno ci aveva pensato. Tanto meno gli uomini dell’Assemblea costituente. Strano, molto strano. Perché lo Statuto albertino all’articolo 62, primo comma, recitava: «La lingua italiana è la lingua officiale delle Camere». E molte Costituzioni europee - dall’austriaca alla francese, dalla portoghese alla spagnola - stabiliscono quale sia la lingua ufficiale.
Il guaio è che queste iniziative legislative sono rimaste nel limbo delle buone intenzioni. Finora non si è andati mai al di là di una prima lettura da parte dell’assemblea di Montecitorio. È vero, una disposizione del genere già fa bella mostra di sé in diverse leggi ordinarie. Ma meriterebbe una dignità costituzionale. Perché rischiamo di diventare sempre più, come temeva Indro Montanelli, degli apolidi. Sì, dei senza Patria sperduti nella torre di Babele. La lingua italiana è ormai appannaggio di pochi. Diciamocela tutta, l’anglomania sta facendo più danni della grandine. Il week end ha sostituito il fine settimana. Il latino media diventa «midia». La scuola estiva si trasforma in summer school. Il sostegno cede il passo al supporto. E il budget surclassa il bilancio. Per non parlare dei Tax Day, dei Family Day e consimili forestierismi.
Giorni fa in treno l’addetto al ristorante si aggirava tra le carrozze invitando i passeggeri alle riservazioni anziché alle prenotazioni. E in una tesi di laurea si poteva pescare questa perla: l’aut aut, il latino o... o, si riduceva all’out out, fuori… fuori. Le frasi sfatte, più che fatte, sono poi all’ordine del giorno. Capita spesso di leggere la seguente scemenza: «Si prega cortesemente di non fumare». Quasi che si potesse pregare tirando moccoli di continuo. E ogni volta che un povero cristo affronta un viaggio in treno viene deliziato dall’annunciatore, ribattezzato speaker, con la seguente frase: «Si invita ad abbassare la suoneria dei telefoni cellulari per non disturbare gli altri viaggiatori». Con il risultato che quei pochi che rispettano l’invito, poi hanno la licenza, visto che la buona educazione ha perso la via di casa, di urlare a squarciagola nel rispondere alle chiamate. Così lavando in pubblico i propri panni. Ben venga, dunque, la disposizione costituzionale.

E a chi obiettasse che non cambierebbe granché, replicheremmo con le parole di Piero Calamandrei: le leggi hanno sempre una loro funzione pedagogica.

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