L’odissea di Capossela negli abissi della mente

Esce il poetico e stralunato doppio cd del cantautore vagabondo. Un insieme di suoni, colori, romanzi e storie raccolte negli oceani. Marinai, profete e balene parte da Omero e arriva fino a Melville e Céline

L’odissea di Capossela negli abissi della mente

Giù, sempre più giù, il favoloso mondo di Vinicio Capossela è infine scivolato sott’acqua, nella pancia del mare, con un doppio disco fradicio di incubi e letteratura, da Omero a Melville a Céline, dal Leviatano ad Achab a Billy Budd, in un’ora e mezza che è probabilmente la più folle e scalmanata odissea che la musica leggera italiana ricordi. Si intitola Marinai, profeti e balene, racconta il mare non come la foto di subacqueo della domenica a Sharm el Sheik, ma per quello che rappresenta nella simbologia letteraria e psichiatrica e nemmeno lui, che da sempre nelle parole nasconde gli scarti illogici capaci di spiegare anche l’inspiegabile, è riuscito a descriverlo fino in fondo. Forse, dice, è «un disco fuori misura che si occupa di cose fuori misura». Oppure è più che altro la Marina Commedia di Vinicio Capossela, piena di madrigali, giga, prison songs, cori e ballate composte ottanta metri sopra il mare nel Castello Aragonese di Ischia, nella Sagrestia senza tetto in modo tale «da vedere le stelle o il sole mentre scrivevo». Già, si era fatto issare un pianoforte a coda degli anni Venti, un Seiler, e lì, spesso travolto dal grecale, si è perso nelle sue Zigfield Folies visionarie e oblique, figlie per forza delle angosce che il magma mitico del pensiero occidentale, da Prometeo fino a Re Lear passando per Faust e Edipo, ha scatenato in questo quarantenne vagabondo che in Vinocolo infila chitarre elettriche affilate, che in Nostos costruisce cori gotici alti come Notre Dame e in Pryntyl canta in «sirenese» di una sirena che cede la coda per aver le gambe. E che finalmente l’universo mondo inizia a riconoscere come talento a se stante, autonomo e inimitabile, e non come semplice e miserevole fotocopia parodistica di Tom Waits, sua vera condanna da quando, più di vent’anni fa, è spuntato dal nulla, con la faccia già piena di rughe e le visioni senza tempo di un cantastorie che Toulouse Lautrec avrebbe amato d’improvviso alla follia (se lo ascoltasse poi nella striscia serale delle 19.50, intitolata come il disco, che andrà in onda fino al 22 su Radiodue: si esalterebbe).
Qualche settimana fa il Sunday Times ha scritto che Capossela è «il più grande segreto italiano», il mensile Q ha già applaudito al nuovo disco e, uscendo dal Barbican di Londra, Clive Davis del Times ha definito il suo concerto «favoloso, semplicemente favoloso». Dunque il mare con i marinai, i profeti e le balene perché, come disse un po’ immodestamente Melville, «nessuna grande opera è mai stata scritta sulle pulci». Un doppio disco che il tour teatrale al debutto il 27 dal Carlo Felice di Genova (il 22 maggio agli Arcimboldi di Milano) celebrerà conservando i due fuochi delle canzoni, ossia il mare aperto, oceanico e pericoloso, e quello chiuso, mediterraneo e introspettivo che le riflessioni «nella pancia buia del Leviatano» amplificano e spesso poetizzano. Insomma, voli alti, spesso pindarici e quindi persino inutile chiedere all’aviatore se c’entri la politica, cibo quotidiano dei plebei, anche se lui stesso ricorda che Laurie Anderson tirò in ballo Moby Dick per sgranare ispirate maledizioni sull’era Bush. Il mare è in fondo, e soltanto, il luogo perfetto di Capossela, fluido e inesauribile, dove affogare le chitarre geniali di Marc Ribot e Jimmy Villotti, le voci assessuali delle Sorelle Marinetti e pazzeschi strumenti dimenticati come la viola d’amore barocca, le percussioni indonesiane gamelan e le Onde Martenot giusto per srotolare un rarissimo disco kolossal. Se fosse un film diventerebbe un incrocio tra un «peplum» e un Pirata dei Carabi, tra un «Salò e le 120 giornate di Sodoma» e un Faust di Murnau.

Per capirci, una ventina di brani impossibili da decifrare al primo ascolto, salvo il singolo Pryntyl e l’Oceano Oilalà, che Capossela canta a modo suo, talvolta orco, altre studentello o beone, nettamente più ispirato del solito anche se «io non sono uno che va per mare, semplicemente lo rispetto» e però lo conosce bene visto come scende illuminato nelle sue ombrose profondità.

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