L’olocausto grottesco dello «zio Coso»

L’ultimo romanzo di Alessandro Schwed racconta il revisionismo necessario della memoria

L’olocausto grottesco  dello «zio Coso»

Ha scritto su Il Male, l’irriverente periodico su cui comparvero le firme di Saviane, Zac, Benigni, Eco, Vincino. Ha collaborato ad alcuni giornali satirici tra i quali L’Eco della carogna, Boxer, Cuore e Mondo Bi e ha operato nell’allegro mondo mediatico di radio e tivù. Si chiama Alessandro Schwed, più noto con lo pseudonimo di Giga Melik, scrittore-scardinatore di schemi, esploratore di vari generi di narrazione, giocoliere della tragi-commedia. Fiorentino d’adozione, ebreo, torinese da parte materna e ungherese da parte paterna, Schwed appartiene di fatto alla folta schiera dei senza patria, con mezza patria o più patrie, della variopinta diaspora ebraica mitteleuropea. «Mio padre Imre era un ebreo ashkenazita, nato nel 1910 a Kishkunfelegihaza, una cittadina dell’Ungheria meridionale. Gli ebrei da quelle parti, come nel resto dell’Europa centrorientale, erano discriminati. Per questo decise di lasciare l’Ungheria». Con il nome di Melik, oltre alle incursioni satirico-giornalistiche di cui sopra, Schwed ha scritto Non mi parte il romanzo, saranno le candele (Ponte alle Grazie, 1999), opera dada-surreal-ironica. Ed oggi esce Lo zio Coso (sempre Ponte alle Grazie), che gli è costato sette anni di lavoro: «Ho deciso di elaborare una scrittura romanzesca che tenesse conto del tragico e del comico - spiega - lasciando aperto volutamente lo spazio tra questi due nobili sentimenti della scrittura, uno spazio-ferita-abrasione che poi è un baratro nel quale si può leggere la consistenza di una vita». Dedicato a una serie di parenti, Lo zio Coso è molto di più di una vicenda autobiografica o di una saga famigliare: «Mio padre era l’ultimo di numerosi fratelli, tutti morti assieme alla madre, ai suoi nipoti e cugini non si sa in quale campo di sterminio. I nomi di queste persone provengono da un biglietto che ho trovato nel suo portafoglio, recapitatomi subito dopo la morte a Haifa». Attraverso il paradosso, Schwed esprime in assoluta levità/comicità l’insostenibile leggerezza dell’essere e la pesantezza di una pagina infame della storia. Ma il lettore non si aspetti un novello Philip Roth alle prese con il suo privato ebraismo o un Mordechai Richler carico di eccessi; e non si aspetti nemmeno un furbesco emulo di Piperno o una storiellina stralunata alla Hänsel & Gretel de La vita è bella. Qui il tema è certamente quello della memoria, del male in tutti sensi e del nazismo, vittime incluse; ma viene rielaborato sulla propria pelle, anche se in senso surreale e antistorico, dove la ricerca di un’identità diventa conquista collettiva, quindi universale (Qualcuno ricorda il paradosso di La città senza ebrei di Hugo Bettauer?). E Schwed assolve a questo impegno in modo esemplare facendo leva sugli aspetti più visibili della cultura ebraica a cui appartiene: l’ironia tipica, il Witz, il gusto per la battuta, il senso del surreale e dell’anticonvenzionale e poi il ruolo della famiglia, con i suoi valori e i suoi cliché; per non parlare della malinconia di un mondo forse perduto, sfilacciato nella contemporaneità, che ogni ebreo cerca di conservare e trasmettere. Nel libro dello Zio Coso il protagonista si mette in viaggio per incontrare uno zio sopravvissuto allo sterminio. Sul treno apprende da un passeggero seduto di fronte a lui, un veterinario nazista, che la Seconda guerra mondiale non è mai esistita. In un dialogo grottesco che strappa più di una risata (amara), il protagonista ricompone il suo passato mentre il veterinario cancella e ricompone quello collettivo attraverso una serie di acrobazie revisioniste: dall’immensa rappresentazione storica che sarebbe stato il bombardamento su Londra, all’inesistente guerra lampo di Danzica, frutto fantasioso di una disputa cabalistica tra due studenti del seminario di Cracovia. Quando il treno è ormai entrato nella campagna ungherese, il protagonista riceve una bastonata in testa che gli confonde la mente: il colpo, dice, gli ha provocato uno «mnemomoto».

Buffe amnesie, certo, ma anche la capacità di ricordare valanghe di episodi dell'infanzia, di raccontare terrori nascosti e taciuti, che lo zio, Lo zio Coso, appunto, come moltissime vittime, ha rimosso per sopravvivere.
m.gersony@tin.it

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