Non parla ex cathedra come l’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, ma è sulla buona strada. Giovandomenico Lepore comincia a prendere confidenza con la notorietà e a dispensare frasi che a lui parranno normali ma normali non sono. «Alla fine - spiega alla Stampa con una certa nonchalance - ha prevalso la ragione». Alfonso Papa è a Poggioreale, primo deputato a finire in cella per un reato da Mani pulite. Ha prevalso la ragione, ci informa il magistrato con un certo piglio. E si capisce che quelle parole pescano in profondità, in quella tradizione, chiamiamola così, che risale al 1992 e dintorni.
Altri tempi, ma con somiglianze impressionanti. Allora Borrelli era il sacerdote supremo che sull’altare della legalità più adamantina era pronto a sacrificare tutto e tutti. Allora le manette erano senza soluzione di continuità e la Prima repubblica si disfaceva come un castello di sabbia fra la bava alla bocca di Forlani, le confessioni fluviali degli imprenditori e i balbettii della politica. Ci volle qualche mese di rodaggio, non di più, poi davanti al crollo generale, Borrelli afferrò il metronomo della vita italiana e cominciò a scandire, lui che era alla guida del Pool, vite e destini, quasi fosse l’autore di un grande romanzo russo dell’Ottocento.
E invece no: Borrelli diventò l’arbitro, meglio il termometro di ciò che era giusto o sbagliato. Dopo gli avvisi di garanzia, ormai inadeguati, si passò ai preavvisi di garanzia. Un preavviso e il terreno si apriva come il mar Rosso davanti al malcapitato, un preavviso e la Borsa cadeva in picchiata come gli aerei giapponesi nella Seconda guerra mondiale, un preavviso e i giornali entravano in fibrillazione. Nel 1993, in un’Italia in macerie e disorientata, Borrellli si ritrovò ad essere non solo il capo di una procura potentissima, come in effetti era, ma il custode dell'etica, in qualche modo il garante della tenuta del Paese insieme al suo amico Oscar Luigi Scalfaro.
Il 20 dicembre ’93 Borrelli tuonò: «Se hanno scheletri negli armadi li tolgano prima che li scopriamo noi». A quella data Berlusconi si preparava alla discesa in campo e a fermare la «gioiosa macchina da guerra» voluta dai Progressisti di Achille Occhetto. Insomma, si dava il via alla grande caccia, come fa il gatto col topo, che ancora oggi prosegue estenuante fra processi, nuovi scandali e continue scintille.
Ma soprattutto con quell’affermazione e con tante altre dei Di Pietro, dei Davigo, dei Colombo e dei D’Ambrosio la magistratura saliva sul gradino più alto e da lì legittimava o delegittimava chiunque provasse a muoversi nello spazio pubblico nazionale.
Lepore si sintonizza, diciotto anni dopo, sulla stessa lunghezza d’onda. Non si limita a fare la sua parte nell’inevitabile gioco dei ruoli, non si accontenta di chiedere l’arresto di un deputato, ma ottenuto un clamoroso e insperato sì, immediatamente passa a pontificare. E alla Stampa racconta l’altalena della emozioni e delle sensazioni vissute alla vigilia del voto di Montecitorio. Quasi un diario di bordo che ci offre una visione in qualche modo caricaturale del parlamento. «All’inizio ci ho creduto», s’intende al sì all'arresto, «per il fatto che il nuovo leader del Pdl, Angelino Alfano, avesse lanciato lo slogan del partito degli onesti. Poi mi sono incupito quando a Montecitorio l’opposizione ha denunciato che era in atto un mercanteggiamento fra decreto rifiuti e arresto Papa. Ma alla fine ha prevalso la ragione e credo che quel voto aiuti a rasserenare il clima di contrapposizione fra politica e giustizia».
Il procuratore non fa solo il suo, che già è molto e di questi tempi è quasi tutto quello che accade in Italia, ma va oltre: si schiera, parteggia, alterna momenti di esaltazione ad altri di amarezza, in certo modo scruta il Palazzo con l’occhio scettico se non cinico del popolo pronto ad impugnare il forcone contro gli eccessi intollerabili della casta.
In fondo, il diario di Lepore è la versione aggiornata, forse più sofferta e crepuscolare, del borreliano «resistere, resistere, resistere». E quei giudizi temerari, che tagliano l’emciclo in due, echeggiano, anche se con toni più rispettosi e meno irridenti, le invettive e i sarcasmi borrelliani sul «tenore alcolico» del guardasigilli Alfredo Biondi o su un altro ministro della giustizia, Roberto Castelli, liquidato con due parole condite col disprezzo: «Ingegnere acustico».
Certo, Lepore, come Borrelli, deve difendersi dalle mille manovre di chi vorrebbe una magistratura di piccola taglia, come un cane da salotto. Che abbaia ma non va oltre la poltrona. Benissimo.
Lepore stia in guardia e proceda con le sue delicatissime inchieste. Ma i commenti dopo la «resa» del Parlamento, assaporata come una vittoria, fanno riflettere. E echeggiano quella breve stagione giacobina, il triennio 92-94, carica di attese. Che non si sono realizzate.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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