Per fermare la persecuzione degli albanesi del Kosovo, la comunità internazionale non esitò a bombardare Belgrado e a procurare di conseguenza la caduta di Milosevic. Per fermare lo scempio dello Zimbabwe ad opera del suo presidente-dittatore Robert Mugabe, finora la stessa comunità, e in particolare l'Unione africana che dovrebbe farsi carico del problema, ha prodotto solo parole.
Parole anche autorevoli, come quelle di Nelson Mandela, che mercoledì ha parlato di «tragico fallimento della leadership dello Zimbabwe», del presidente di turno della Comunità per lo sviluppo dell'Africa del Sud (Sadc), che ha intimato a Mugabe di sospendere il ballottaggio-farsa in programma per oggi, del Premio Nobel Desmond Tutu, che ha definito Mugabe «una specie di Frankenstein», o del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che ha condannato «le inenarrabili violenze contro l'opposizione che hanno caratterizzato la campagna elettorale». Ma il presidente sudafricano Mbeki, che era stato incaricato di mediare tra lo stesso Mugabe e il capo dell'opposizione Morgan Tsvangirai ed aveva i mezzi per risolvere la situazione ha tenuto fino ad oggi un comportamento pilatesco, che ha permesso al vecchio despota di fare impunemente tutto ciò che ha voluto: prima si è rifiutato per settimane di pubblicare i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali del 29 marzo, che lo avevano visto soccombente, poi, quando ha accettato di andare al ballottaggio, ha proclamato che solo Dio avrebbe potuto privarlo del potere e ha scatenato le sue squadracce contro i seguaci di Tsvangirai, uccidendone 85 (compresi donne e bambini), arrestandone 2000 e costringendo migliaia di altri a fuggire dopo averne bruciate le case.
Quando finalmente Tsvangirai, dopo essere stato arrestato cinque volte e minacciato di morte, ha annunciato il suo ritiro, ha deciso - a dispetto del mondo intero - che il voto odierno avrà comunque luogo e che solo quando sarà stato confermato presidente intavolerà eventualmente un dialogo con l'opposizione. Per evitare che le urne vadano deserte, i suoi scherani minacciano di costringere la gente a votare a bastonate. Ma a parte le violenze delle ultime settimane, Mugabe andrebbe rimosso per quello che in 28 anni ha fatto al suo Paese, non da ultimo cacciando i 5.000 coloni bianchi che vi avevano creato una agricoltura moderna. Una volta granaio dell'Africa australe, lo Zimbabwe è oggi ridotto alla fame, con la disoccupazione all'80%, l'inflazione al milione per cento (record mondiale di sempre) e un quarto della popolazione che ha cercato scampo nelle nazioni vicine. Forte del suo passato di eroe della guerra di liberazione, Mugabe ha sempre respinto tutte le critiche e ottenuto la solidarietà degli altri leader africani, Mbeki in testa. Ora, questa forma di omertà sembra essersi incrinata. Ma il test sarà la risposta dell'Unione Africana e della Sadc alla richiesta di Tsvangirai di inviare un contingente di 4.000 uomini per garantire il ritorno della calma, una fase di transizione ed eventualmente un nuovo voto in condizioni accettabili.
Se, come è probabile, sarà ignorata, e Mugabe continuerà a spadroneggiare, toccherà all'Onu, sotto il pungolo di Stati Uniti e Gran Bretagna, prendere l'iniziativa, rifiutandosi di riconoscere la legittimità del suo nuovo mandato e isolandolo: non solo in nome della democrazia e dei diritti umani, ma nell'interesse dell'Africa, che se vuole diventare un continente normale non può più tollerare comportamenti come questo.
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