Politica

L’Opa sulla Quercia

Quello degli scandali finanziari del nostro Paese non è un banale «romanzo criminale», ma qualcosa di più intrigante che il clamore delle inchieste e il clangore dei titoli di giornale a volte fa perdere di vista: sono il passato e il futuro della politica italiana. I fatti di questi giorni hanno una genesi lontana e si intrecciano con il finir della legislatura. I rapporti tra banca, finanza e industria hanno un cuore politico che oggi pulsa come non mai. A destra, ma soprattutto a sinistra.
Mentre sull'anno 2003 scorrevano i titoli di coda e il caso Parmalat erompeva, incontenibile, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ingaggiò un braccio di Ferro con Fazio. Perse il primo round quando la notte del 3 luglio 2004 rassegnò le dimissioni. Allora Fazio era intoccabile, Tremonti un temerario. Eppure si capiva già che non sarebbe finita né con la cacciata di Tremonti né con la conservazione di Fazio né con l'armistizio tra poteri forti in cerca di asset da controllare, le banche prima di tutto. E proprio sulle banche quell'armistizio si è infranto, quando alcuni di questi poteri, di concerto con i nouveaux riches, hanno pensato di conquistare posizioni nell’establishment per consolidare interessi economici (e politici) in vista della nuova legislatura e magari di un cambio di regime: la compagnia d’assicurazioni Unipol, forziere delle Coop rosse, progetta una scalata su una banca con molti problemi ma pur sempre grande, la Bnl; Rcs viene scalata da Stefano Ricucci che ha sfruttato le plusvalenze della bolla immobiliare; la Banca Popolare di Lodi va all’assalto dell’Antonveneta per creare un polo del Nord Est. Un risiko gigante per un teatro piccolo come l'Italia. Gli intrecci tra editoria, industria e finanza creano subito un fronte comune e il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’operazione Lodi-Antonveneta finisce a carte quarantotto (alla fine vincono gli olandesi di AbnAmro); la Magiste di Stefano Ricucci finisce a dieta; Unipol, Giovanni Consorte e i Ds sotto schiaffo giudiziario; Gianpiero Fiorani in cella; Antonio Fazio indagato. Un disastro. Tutto ciò grazie alla magistratura che farà il suo dovere, ma nello stesso tempo rivela un orologio e una selettività degli obiettivi che fanno riflettere.
Scavato, allagato e popolato di coccodrilli il fossato che deve difendere Rcs, resta da fermare l’Opa di Unipol su Bnl. L’operazione attende ancora il via libera da Bankitalia, cioè dal Fazio indagato per insider trading su Antonveneta e con i riflettori della Procura romana puntati su Consorte. Che un Governatore in queste condizioni possa mettere il suo timbro su un'operazione così vicina alla Quercia è quasi impensabile. Ma potrebbe accadere, e infatti bisogna riesumare i cremlinologi e leggere tra le righe i discorsi del Botteghino. Tutti, ufficialmente, vogliono che Fazio lasci. Ma poi... È sintomatico il Massimo D’Alema che l’altro ieri poneva distinguo e paletti sull’accordo bipartisan per la riforma del risparmio che il Parlamento, per interessi contrapposti e inconfessabili calcoli, aveva rinviato sine die. Raccontano i bene informati che nella Quercia ci sono due linee: i fassiniani avrebbero mollato Consorte al suo destino e abbandonato il gioco dell’Opa; i dalemiani sarebbero invece come gli ultimi giapponesi nel Pacifico, ancora in armi nonostante la guerra sembri finita. Una parte dei Ds sarebbe pronta a ingaggiare una vera e propria battaglia per difendere Unipol (non Consorte: Unipol) e la scalata sulla Bnl, ma soprattutto per difendere il passato e il futuro della Quercia minacciato dal progetto del Partito Democratico, tessera numero uno a nome di Carlo De Benedetti, editore di Repubblica. La scena infatti è cambiata. Il gioco dell’Opa è virtualmente finito. È partito il Monòpoli della politica e le regole le ha dettate Paolo Mieli, direttore del Corriere della Sera. Cercando di dare una strategia ai tatticismi del centrosinistra in perenne ricerca d’autore, Mieli ha scritto un editoriale l’altro ieri che è il programma del possibile Ulivo di governo, cioè il Partito democratico. Un progetto che non prevede l’esistenza dei «post-comunisti», né la riesumazione di nuovi contenitori ispirati dal Botteghino. E allora niente «cosismo», ma un dolce scioglimento (nell’acido?) del Partito democratico dove la futura leadership non sarà quella di Fassino e D’Alema, ma quella della coppia Veltroni-Rutelli, benedetta dall’Ingegner De Benedetti. Il segretario dei Ds a questa prospettiva avrebbe già di fatto ceduto e le sue parole al convegno della Margherita ne sono una testimonianza. Ma Fassino è un torinese che sa essere realista, mentre D’Alema è nato a Roma, città eterna e degli intrighi, si è iscritto nella Fgci a 14 anni nel 1963 e nel Pci nel 1968, è entrato nel Comitato Centrale col XV Congresso. A lui non va giù l’idea che l’establishment (Il Corriere di Mieli) e il king maker dell’opposizione (La Repubblica di De Benedetti) lo additino come il «post-comunista» e per soprammercato consiglino l'eutanasia della Quercia. La sopravvivenza del sistema di potere dei Ds nella prossima legislatura passa dunque anche per Unipol e se lo scontro economico in fondo si può perdere, quello politico no, perché la vera Opa, quella sui Ds, è lanciata.
Ecco perché nella Quercia ci si prepara alla battaglia delle Midway. D’Alema sembra già aver indossato i panni del generale Ysoroku Yamamoto, comandante della flotta giapponese, e l’altro ieri sparava cannonate su tutto e tutti. Un po' a casaccio in realtà perché non ha ancora deciso se il nemico da puntare è la Margherita di Rutelli, alfiere del Partito Democratico, oppure è il Corriere della Sera, i suoi alleati di Repubblica e magari quel Paolo Mieli che nelle vesti del generale Chester William Nimitz, comandante della flotta americana, calzerebbe a pennello.
D’Alema e i Ds forse non lo ricordano, ma la battaglia delle Midway durò il lampo di cinque minuti. Le due flotte navali non si confrontarono mai. L’esito dello scontro fu deciso dagli aerei. E i giapponesi persero. È vero, l’Unione si fa forte dei sondaggi che la vogliono in vantaggio. Per ora.

Ma «è difficile convincere gli elettori a votare per il centrosinistra se si dà l’impressione che il conflitto di interessi sia diffuso anche da quella parte». Parole di Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit, un banchiere che la sinistra la conosce bene.

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