La terra vista dal finestrino dellaereo che sta scendendo verso laeroporto di Bucarest è piatta, grigia e giallastra, disseminata di pozzanghere luccicanti come i frammenti di specchio nei presepi. È questa la mia terra madre? È per lei che porto nel cuore da quarantanni la nostalgia che mi fa esclamare «Stupendo, ma non è quello!» anche davanti al panorama più spettacolare? In realtà sono nato in Bucovina, cinquanta chilometri più a nord, in un paesaggio ben diverso da questo, ancora più splendido di come appare sui dépliants turistici.
Ma anche qui, a Bucarest e nelle pianure che la circondano, ho passato un periodo della mia vita importante quanto linfanzia: gli anni, per così dire, della seconda nascita; quelli in cui ti liberi dalla sofferenza che ti fa prendere le parole alla lettera. Proprio qui, a ventidue, ventitré anni, ho sperimentato che un amore finito non ti spezza il cuore per sempre. Che puoi essere apprezzato come essere umano anche se non sei in grado di vincere il campionato dei pesi massimi o di guadagnare gli allori del poeta precoce. Che sei capace di guadagnarti la tua indipendenza con qualsiasi mestiere. Ho sempre pensato che la mia nostalgia si proiettasse non solo su quel paesaggio ma, in gran parte, anche su quegli anni lontani. Ma ciò che scatenava quella sensazione quasi fisica di «fame» era ben altra perdita.
Oggi la Romania mi accoglie con dei soldati infreddoliti che imbracciano il mitra mentre scendiamo la scaletta dellaereo. La loro divisa ricorda solo lontanamente quella dei miei tempi. Ha laria più sovietica. Ma le facce dei ragazzi sono sempre quelle di bravi contadini valachi. Se mi sparassero addosso, lo farebbero solo perché prendono le parole alla lettera. Ledificio dellaeroporto è una di quelle costruzioni che sembrano decrepite anche se sono giovanissime. Prima di arrivare allo sportello dove un poliziotto in divisa controlla i nostri documenti, mi si avvicina un donnone pesante e rotondo come una palla di cannone, trattenuta a malapena da un cinturone sul suo cappotto militare. Sembra unorchessa dallaria arcigna. Mi chiede il passaporto. Con un po di preoccupazione le do il mio documento da apolide dicendole in rumeno: «Sono nato in questo paese. Ci ritorno per la prima volta dopo quarantanni». Lorchessa spalanca le braccia: «Bine ai venit, feciorule!». «Benvenuto figliolo!». Sì, mi chiama «figliolo», anche se potrei essere suo padre. È la terra madre in persona che ride, e mi stringe contro le curve generose, saldissime dentro il cappotto militare. Di colpo sento che in questa specie di mappamondo si cela quello che mi è mancato per tutti questi anni.
Subito dopo, da buon cristiano, provo un senso di colpa. Ecco la città di Bucarest, evidentemente non così deturpata dalla guerra, dal terremoto, dagli orrori edilizi da non consentirmi di riconoscere i viali dove vagabondavo nelle mie ore vuote, le case degli amici, langolo della stradina dove abitavo, i teatri, i grandi ristoranti. Come mai non ricordavo che era una città cosparsa di villette liberty e art déco, stupefacenti per la varietà e la fantasia decorativa, una rassegna completa degli stili dei primi decenni del secolo? Come mai non mi ero reso conto di quanto fossero monumentali e celebrativi quegli edifici pubblici, perfette espressioni della prima ondata di megalomania dei burocrati che avevano sostituito i regnanti? A quellepoca disegnavo molto. Volevo studiare architettura. Avrei dovuto vedere tutto questo, avrebbe dovuto restare impresso nella mia memoria.
La mia attenzione era rivolta ad altre cose. Sì, lo ammetto: in quei giorni la mia aspirazione a diventare il successore di Adolf Loos era già svanita. Ero trascinato da unaltra passione: i cavalli. Ogni mattina, alle cinque, ero sulla pista smeraldina dellippodromo. Aspettavo che uno degli allenatori che mi ero fatto amico mi desse un cavallo da montare. Avevo in mente un progetto stravagante: andare in Etiopia con un team di cavalli e fantini per iniziare gli abissini alla passione del turf. Scoppiò la guerra con lItalia, e anche questo sogno si infranse.
Che bella professione sarebbe stata quella di allenatore. Oggi, dove una volta cera lippodromo, si erge limmenso Palazzo della Stampa nel più puro stile staliniano. Niente più emozioni sportive allalba sui prati smeraldini. Ma si può diventare individui apprezzabili anche se, dopo tanti fallimenti, si sceglie come estrema ratio la professione dello scrittore. Cioè quando, per così dire, si nasce una terza volta, con la consapevolezza che le parole vanno prese alla lettera. Quando si sente la responsabilità di quello che si dice.
Sono arrivato a Bucarest per scrivere un reportage sulla Romania di oggi. Senza dubbio la mia prima impressione è quella, banale, che manca il colore di una volta. La Romania è diventata grigia e giallastra. Negli ultimi decenni è stata pesantemente industrializzata, e la prima cosa che unindustria produce non sono beni di consumo, bensì una classe uniforme.
Li amavo molto, i colori della Romania. Ogni contadino con il suo costume nazionale fastosamente ricamato portava addosso tutti i colori delliride. Erano una parte così integrante del nostro paesaggio che non avevo mai realizzato che con il proprio costume, ognuno di loro portava addosso i simboli duna cultura antichissima.
In Bucovina insieme ai rumeni vivevano ruteni, polacchi, tedeschi, lipoveni ed ebrei. Avrei dovuto parlare, se non lebraico, almeno lo Yiddish alla perfezione. Avrei potuto conoscere i chassidim abbastanza per conversare a tu per tu con Martin Buber. Ma degli ebrei mi contentavo di ascoltare le barzellette. Tutte occasioni mancate. Nel centro di Bucarest, sulla piazza dellAteneo, è scomparso il caffè Corso, ritrovo degli intellettuali che purtroppo non ho mai frequentato. Adesso la piazza è molto più vasta. Dirimpetto al vecchio palazzo reale si erge limmenso palazzo del partito. Cè sempre un gruppo di poliziotti che ti impedisce di passeggiare. Sono enormi anche loro, fratelli della mia orchessa dellaeroporto.
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