L’orchessa rumena mi accolse così: «Benvenuto figliolo»

Un reportage nella Bucarest del 1979. Le villette liberty e la megalomania dei burocrati che ha cancellato i colori

La terra vista dal finestrino dell’aereo che sta scendendo verso l’aeroporto di Bucarest è piatta, grigia e giallastra, disseminata di pozzanghere luccicanti come i frammenti di specchio nei presepi. È questa la mia terra madre? È per lei che porto nel cuore da quarant’anni la nostalgia che mi fa esclamare «Stupendo, ma non è quello!» anche davanti al panorama più spettacolare? In realtà sono nato in Bucovina, cinquanta chilometri più a nord, in un paesaggio ben diverso da questo, ancora più splendido di come appare sui dépliants turistici.
Ma anche qui, a Bucarest e nelle pianure che la circondano, ho passato un periodo della mia vita importante quanto l’infanzia: gli anni, per così dire, della seconda nascita; quelli in cui ti liberi dalla sofferenza che ti fa prendere le parole alla lettera. Proprio qui, a ventidue, ventitré anni, ho sperimentato che un amore finito non ti spezza il cuore per sempre. Che puoi essere apprezzato come essere umano anche se non sei in grado di vincere il campionato dei pesi massimi o di guadagnare gli allori del poeta precoce. Che sei capace di guadagnarti la tua indipendenza con qualsiasi mestiere. Ho sempre pensato che la mia nostalgia si proiettasse non solo su quel paesaggio ma, in gran parte, anche su quegli anni lontani. Ma ciò che scatenava quella sensazione quasi fisica di «fame» era ben altra perdita.
Oggi la Romania mi accoglie con dei soldati infreddoliti che imbracciano il mitra mentre scendiamo la scaletta dell’aereo. La loro divisa ricorda solo lontanamente quella dei miei tempi. Ha l’aria più sovietica. Ma le facce dei ragazzi sono sempre quelle di bravi contadini valachi. Se mi sparassero addosso, lo farebbero solo perché prendono le parole alla lettera. L’edificio dell’aeroporto è una di quelle costruzioni che sembrano decrepite anche se sono giovanissime. Prima di arrivare allo sportello dove un poliziotto in divisa controlla i nostri documenti, mi si avvicina un donnone pesante e rotondo come una palla di cannone, trattenuta a malapena da un cinturone sul suo cappotto militare. Sembra un’orchessa dall’aria arcigna. Mi chiede il passaporto. Con un po’ di preoccupazione le do il mio documento da apolide dicendole in rumeno: «Sono nato in questo paese. Ci ritorno per la prima volta dopo quarant’anni». L’orchessa spalanca le braccia: «Bine ai venit, feciorule!». «Benvenuto figliolo!». Sì, mi chiama «figliolo», anche se potrei essere suo padre. È la terra madre in persona che ride, e mi stringe contro le curve generose, saldissime dentro il cappotto militare. Di colpo sento che in questa specie di mappamondo si cela quello che mi è mancato per tutti questi anni.
Subito dopo, da buon cristiano, provo un senso di colpa. Ecco la città di Bucarest, evidentemente non così deturpata dalla guerra, dal terremoto, dagli orrori edilizi da non consentirmi di riconoscere i viali dove vagabondavo nelle mie ore vuote, le case degli amici, l’angolo della stradina dove abitavo, i teatri, i grandi ristoranti. Come mai non ricordavo che era una città cosparsa di villette liberty e art déco, stupefacenti per la varietà e la fantasia decorativa, una rassegna completa degli stili dei primi decenni del secolo? Come mai non mi ero reso conto di quanto fossero monumentali e celebrativi quegli edifici pubblici, perfette espressioni della prima ondata di megalomania dei burocrati che avevano sostituito i regnanti? A quell’epoca disegnavo molto. Volevo studiare architettura. Avrei dovuto vedere tutto questo, avrebbe dovuto restare impresso nella mia memoria.
La mia attenzione era rivolta ad altre cose. Sì, lo ammetto: in quei giorni la mia aspirazione a diventare il successore di Adolf Loos era già svanita. Ero trascinato da un’altra passione: i cavalli. Ogni mattina, alle cinque, ero sulla pista smeraldina dell’ippodromo. Aspettavo che uno degli allenatori che mi ero fatto amico mi desse un cavallo da montare. Avevo in mente un progetto stravagante: andare in Etiopia con un team di cavalli e fantini per iniziare gli abissini alla passione del turf. Scoppiò la guerra con l’Italia, e anche questo sogno si infranse.
Che bella professione sarebbe stata quella di allenatore. Oggi, dove una volta c’era l’ippodromo, si erge l’immenso Palazzo della Stampa nel più puro stile staliniano. Niente più emozioni sportive all’alba sui prati smeraldini. Ma si può diventare individui apprezzabili anche se, dopo tanti fallimenti, si sceglie come estrema ratio la professione dello scrittore. Cioè quando, per così dire, si nasce una terza volta, con la consapevolezza che le parole vanno prese alla lettera. Quando si sente la responsabilità di quello che si dice.
Sono arrivato a Bucarest per scrivere un reportage sulla Romania di oggi. Senza dubbio la mia prima impressione è quella, banale, che manca il colore di una volta. La Romania è diventata grigia e giallastra. Negli ultimi decenni è stata pesantemente industrializzata, e la prima cosa che un’industria produce non sono beni di consumo, bensì una classe uniforme.
Li amavo molto, i colori della Romania. Ogni contadino con il suo costume nazionale fastosamente ricamato portava addosso tutti i colori dell’iride. Erano una parte così integrante del nostro paesaggio che non avevo mai realizzato che con il proprio costume, ognuno di loro portava addosso i simboli d’una cultura antichissima.
In Bucovina insieme ai rumeni vivevano ruteni, polacchi, tedeschi, lipoveni ed ebrei. Avrei dovuto parlare, se non l’ebraico, almeno lo Yiddish alla perfezione. Avrei potuto conoscere i chassidim abbastanza per conversare a tu per tu con Martin Buber. Ma degli ebrei mi contentavo di ascoltare le barzellette. Tutte occasioni mancate. Nel centro di Bucarest, sulla piazza dell’Ateneo, è scomparso il caffè Corso, ritrovo degli intellettuali che purtroppo non ho mai frequentato. Adesso la piazza è molto più vasta. Dirimpetto al vecchio palazzo reale si erge l’immenso palazzo del partito. C’è sempre un gruppo di poliziotti che ti impedisce di passeggiare. Sono enormi anche loro, fratelli della mia orchessa dell’aeroporto.

Per non perdere un’ultima buona occasione mi avvicino a uno di essi e gli chiedo: «Se vengo qui con i miei nipotini e mi chiedono perché non si può circolare liberamente davanti alla sede dei benefattori del popolo, cosa devo rispondere?». Il poliziotto sembra misurarmi con lo sguardo. «Ma che razza di furbacchione sei? Du-te’n pizda máti!», che sarebbe come dire: «Ma torna nel grembo di tua madre!». Ora mi sento veramente a casa.

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