L’orco fugge dai domiciliari, bufera sul pm lumaca

MilanoUn po’ come con le ciliegie: una lumaca tira l’altra. Sulla giustizia l’effetto è speculare: ancora una volta in ritardo.
Il caso tutto sommato è semplice. Ci sono uno stupratore, una vittima bambino e qualche togato forse in altre faccende affaccendato. Troppo per ricordarsi gli «arretrati». Risultato, il colpevole, o se preferite il presunto tale, libero. Da tre giorni su di lui pesa un mandato di cattura. È evaso, niente grimaldelli e lime, scappare da casa non è impresa improba. Peccato che a norma di legge avrebbe dovuto trovarsi dietro le sbarre. Da lì sarebbe stato leggermente più difficile chiudere la porta.
Succede a Milano, e, guarda caso, succede anche che il pm titolare dell’inchiesta sia proprio quel magistrato assurto alle cronache come il «giudice più lento del mondo»: Edi Pinatto, ex del tribunale di Gela, condannato a 8 mesi di reclusione, con pena sospesa, e radiato (lo scorso giugno) dall’ordine giudiziario per aver impiegato 8 anni a scrivere le motivazioni di un processo di mafia. Grazie a lui sette imputati del clan Madonia tornarono anzitempo in libertà. Eppure esercita ancora. Ha fatto ricorso in Cassazione, dieci giorni fa è stato discusso il caso, si attende la sentenza. Insomma un ex magistrato, per il Csm, che ha ancora la toga sulle spalle. Lentezza su lentezza: la radiazione dopo 9 mesi non è ancora operativa.
Morabit El Mostafa, 34 anni, operaio marocchino, si aggiunge ora alla lista dei beneficiati. La polizia lo aveva arrestato alla fine di gennaio. Violenza su un ragazzino di nemmeno quattordici anni, l’accusa.
Una storiaccia di abusi quotidiani, l’adolescente bloccato sulla strada di ritorno da scuola, costretto a subire le attenzioni malate del maghrebino, sempre più pesanti, condite da minacce e rapporti quasi completi. Fino alla denuncia, accompagnato in lacrime dalla madre in commissariato. Scattarono le manette, il pm di turno di turno quel giorno era Pinatto. Fin qui tutto normale. O quasi. Il gip decide di concedere i domiciliari al marocchino. In attesa di giudizio. Sennonché, nel frattempo, cambia la legge, ecco il 20 febbraio approvato il decreto che inasprisce misure cautelari e pene per i responsabili di violenza carnale. A questo punto, così come accaduto per lo «stupratore di Capodanno», anche per Morabit dovrebbero aprirsi le porte del carcere. Niente più misure alternative alla detenzione, recita la norma.
Ma non accade, stavolta. Edi Pinatto, non spiega il perché. «Non parlo con i giornalisti», la laconica risposta a chi lo cerca.
Resta dunque il dubbio, non conoscendo l’iter della «pratica». Di chi la colpa? Di un pm cui toccava chiedere la nuova misura restrittiva, o magari di un gip troppo lento nell’applicarla?
Fatto sta che ad avvisare la polizia della fuga di Morabit El Mostafa sono stati gli stessi suoi due connazionali che abitano nell’appartamento di via Merula 5 dove l’uomo si trovava agli arresti. «È uscito e non è più tornato», hanno raccontato, preoccupati, ai poliziotti. Non volevano finire nei guai.
Magari oggi qualcuno spiegherà perché Morabit abbia potuto andarsene indisturbato. Con buon pace del presidente Napolitano, fra i primi, a suo tempo, a chiedere la testa del «giudice lumaca».
Per la cronaca i ritardi di Pinatto, almeno stando alla sentenza del Csm, provocarono la scarcerazione di alcuni esponenti del clan dei Madonia imputati nel processo «Grande Oriente», essendo scaduti i termini di custodia cautelare.

Solo nel marzo scorso il pm aveva depositato le motivazioni della sentenza emessa nel 2000 dal tribunale di Gela contro i sette componenti del clan mafioso, condannati complessivamente a 90 anni di carcere. Ma ormai gli imputati erano usciti dal carcere e il giudizio di appello non aveva potuto essere celebrato in assenza delle motivazioni del primo grado.

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