L’ottimismo di Hong Kong: «Cina quasi democratica»

È ottimista sul futuro di Hong Kong e della Cina, nonostante il terremoto e le tensioni in Tibet. Henry Tang, 56 anni e modi signorili, è il primo ministro dell’ex colonia britannica. Un incarico prestigioso, considerato che il «porto profumato» è uno dei centri finanziari più importanti al mondo. Un incarico delicato, visto che, sebbene autonoma, Hong Kong dipende da Pechino. C'è libertà di opinione, ma solo un terzo del Parlamento è eletto dal popolo. Henry Tang, in Italia per una visita ufficiale, ha concesso questa intervista al Giornale.
Hong Kong apripista per l'introduzione della democrazia in Cina?
«Penso che i cinesi abbiano imparato molto da noi e che ora seguano gli sviluppi per vedere gli effetti del processo democratico. Noi e la Cina siamo nella fase di apprendimento e ci vuole gradualità. Voi occidentali non potete giudicare la nostra realtà in base ai vostri parametri. Voi avete libere elezioni da più di un secolo, i cinesi no. Ma la democratizzazione è una prospettiva concreta».
Però, pur avendo chiesto piena democrazia al più presto, avete rimandato tutto al 2017. Un'altra occasione persa?
«La Costituzione di Hong Kong impone che qualunque cambiamento riguardante la democrazia vada concordato con Pechino. Il Congresso del popolo ha risposto alle nostre sollecitazioni dando il consenso per l'elezione diretta nel 2017 del Chief executive, ovvero del presidente. E dal 2020 cercheremo di rendere libere anche le elezioni parlamentari. Non sono tempi così lunghi».
La mobilitazione mondiale per il Tibet non rischia di danneggiare la vostra immagine al pari di quella per la Cina?
«Non credo, la gente di Hong Kong sostiene il progetto di una Cina unificata ed è fiera dei Giochi Olimpici. C'è patriottismo. Peraltro penso che Pechino stia facendo un buon lavoro in Tibet, dove la situazione è migliorata: ci sono più lavoro e più educazione. Il livello di vita è salito e i tibetani possono continuare a seguire le proprie tradizioni religiose e culturali. Il fenomeno è simile a quello di molte città cinesi».
Ma oggi i tibetani sono in minoranza, per l'afflusso di cinesi che non è stato spontaneo...
«A 4mila metri d'altezza il Tibet non è un bel posto dove vivere. La gente ci va perché offre ottime opportunità imprenditoriali e dunque lavoro. Sono gli effetti della globalizzazione».
A proposito di globalizzazione, come vive Hong Kong la crisi dei subprime?
«In Asia è stata meno severa rispetto agli Usa. A Hong Kong abbiamo verificato in profondità la situazione delle banche e oggi la situazione è sotto controllo, sebbene alcune di loro abbiano sofferto importanti perdite».
C'è chi dice: il sud della Cina è troppo caro, fine del boom industriale?
«È vero, in certe zone il costo del lavoro sale.

Alcune fabbriche dovranno evolvere senza puntare più solo sulla manodopera a buon mercato; altre andranno via. La tendenza è a spostarsi nelle zone centrali, ancora poco sviluppate. Tutto questo è inevitabile ma non cambia le prospettive né per Hong Kong né per la Cina».

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