L’ultima sfida del beduino: da solo contro il mondo

Per decenni ha tenuto sotto scacco l’Occidente con il ricatto del gas e del petrolio. Ora tenta l’ultimo colpo di coda per sopravvivere

L’ultima sfida del beduino: da solo contro il mondo

Avrebbe potuto darsi malato, malato grave, addirittura in pericolo di vita, come ha opportunamente fatto il suo compare Hosni Mubarak, presidente egiziano rifugiatosi fra gli ozi di Sharm el Sheik, e quell’altro gnorri, il tunisino Ben Ali, autoesiliatosi in un villone vista mare a Gedda, in Arabia Saudita. Avrebbe potuto filarsela all’inglese, carico dei suoi dobloni e avvolto in uno dei suoi spettacolari barracani africaneggianti o in uno dei suoi costumi da direttore del circo, accettando come una star sul viale del tramonto di veder calare il sipario sui 42 anni della sua dittatura. Chi avrebbe maramaldeggiato, di fronte al tragico mascherone in cui si è trasformato il suo volto, tutto buche, bozzi, depressioni, crepe, canyon e tumefazioni, buono ormai per giustificare il più esiziale dei mali?

Avrebbe potuto, certo. E il mondo, posto davanti al dilemma della salvaguardia dei diritti umani e al business del petrolio e del gas, avrebbe fatto finta di niente, abbozzando come d’uso. Ma si sarebbe detto, i libri di storia avrebbero scritto che Muammar Gheddafi, il capitano promosso colonnello che pensava a se stesso come al più grande feldmaresciallo mai apparso sul pianeta Terra, aveva mollato il potere come un codardo, un vigliacco, un lemure. E Gheddafi non è un codardo. È un dittatore sanguinario, un furfante matricolato, un mandante di sicari, un astuto mercante e un gambler consumato che per decenni ha tenuto sulla corda l’Occidente, facendo ballare anche noi italiani al ritmo della sua musica. Ma non un codardo. E tampoco un imbecille. Se dovrà salire sulla forca, un giorno, ci salirà. E lo farà con la stessa compostezza, la stessa dignità mostrata negli ultimi istanti della sua vita da Saddam Hussein, il suo diabolico alter ego. Ma non è detto che quel giorno arrivi. E fino ad allora, il beduino che sfidò il mondo intero continuerà a farci ballare al ritmo della sua rumba infernale. La mossa giocata in extremis ieri, nella smazzata più difficile da quando il suo Paese gli è inspiegabilmente sfuggito di mano, lo dimostra. Bombardarlo? Proprio ora che ha promesso di «non farlo più», fermando la sua aviazione, i suoi mercenari, i suoi cannoni? Non bombardarlo, perdonandogli i massacri e facendosi sfuggire l’occasione di chiudere una volta per tutte i conti vecchi e nuovi col beduino che osò alzare la testa contro l’America e l’Inghilterra? Alla fine, al punto in cui son giunte le cose, un pretesto per dargli una lezione probabilmente si troverà. Di certo, la partita mortale giocata da Gheddafi in difesa di una Libia unita sotto la bandiera verde della Jamahiriya è perduta.

Il colonnello dovrà verosimilmente rinunciare alla Cirenaica e alla sua capitale, Bengasi, accettando di assistere allo smembramento del Paese. Non è il peggiore dei mali. Solo una decina di giorni fa, quando sembrava che tutto fosse ormai perduto per lui e il suo clan, una spartizione del Paese e il consolidamento del suo potere su una gran fetta di territorio, con Tripoli capitale, sarebbe sembrata al raìs una conclusione insperata, un colpo di fortuna. Oggi, l’arresto imposto alla sua feroce macchina da guerra, suonerà comunque come una sconfitta. La grande scommessa, giocata sul ricatto del petrolio e del gas, davanti al quale l’Occidente (nei conti del raìs) avrebbe dovuto infine piegare il ginocchio, accettando ogni eccesso, ogni carneficina, è perduta.

Il grande condottiero, l'impavido beduino che aveva indotto anche l’Africa nera a guardare a lui come al redivivo Solimano il magnifico(a questo puntava anche il suo drammatico apparato scenografico, le amazzoni e tutto l’ambaradan dei suoi rutilanti costumi di scena) dovrà fare appello a tutte le sue risorse e al suo istinto di sopravvivenza per uscire dal tunnel in cui si è infilato.

Certo, le immagini del raìs durante le sue recenti sfilate romane, col baciamano di Berlusconi e il colonnello impancato a dare lezioni a una platea di 500 ragazze pagate per la comparsata, durante la quale spiegò loro come e qualmente «l’Islam dovrebbe diventare la religione di tutta l’Europa», sembrano lontane anni luce. Almeno quanto quelle del colonnello che negli anni Ottanta sosteneva l’Ira e Settembre Nero e che nell’aprile dell’86 si ritrovò sulla verticale una formazione di caccia speditagli dal presidente Reagan, salvando la ghirba per miracolo (ma anche grazie a Bettino Craxi, che lo aveva avvertito del «temporale» in avvicinamento).

Ecco, quel «temporale» evitato una volta si profila ora nuovamente all'orizzonte, e ancor più minaccioso di quell’altro. Se lo augurano in cuor loro, anche se forse non è politicamente corretto dirlo, tutti gli italiani che col decreto di confisca del 21 luglio 1970, emanato «per restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori», si videro spogliati di ogni loro bene.

Compresi i contributi assistenziali versati all’Inps e da questo trasferiti in base a uno scellerato accordo all’istituto libico corrispondente. Ricordi amari che il business e la realpolitik al profumo di petrolio non hanno mai cancellato.

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