Milano - Cavalcare il dragone. L’ultima tentazione della sinistra dopo la rivolta della Chinatown ambrosiana, sedata dalla polizia municipale al prezzo di ben quattordici agenti feriti. La tolleranza zero, ribadita dal sindaco Letizia Moratti e condivisa dalla totalità dei residenti italiani della zona, diventa per diessini, margheriti e comunisti locali l’occasione per esercitarsi in analisi sociologiche, disquisire su nuove possibili forme di integrazione e adombrare lo spettro dell’insurrezione delle banlieu parigine. Quasi che il rispetto del codice della strada o di una legge siano questione d’opinione e non di disciplina. E allora scattano automatiche le solite parole d’ordine: razzismo, xenofobia, paura del diverso. In aiuto arrivano anche le versioni scandalosamente filo cinesi imbastite dal Tg3 e dai quotidiani politically correct. Il Manifesto parla addirittura di «mesi di vessazioni e campagne stampa contro la comunità straniera più integrata e pacifica». Ricorre all’ironia, sicuramente fuori luogo visti gli agenti feriti quasi non fossero lavoratori in servizio, l’Unità («Certo che per far inc... i cinesi ce ne vuole»). Si adombra un’inutile, anzi dannoso pugno di ferro e la persecuzione di una minoranza sparuta e indifesa. Sicuramente non il caso dei cinesi, come dimostrano cifre e proporzioni di un business che dovrebbe cominciare a far paura. Perché la tigre se è di carta, è di carta moneta. Con le ditte made in China addirittura triplicate negli ultimi sei anni e ormai arrivate in Italia all’1 per cento del totale. Secondo un’elaborazione della Camera di commercio di Milano sono ormai oltre 26mila. In testa Milano con 2.822, seguita da Prato (2.641), Firenze (2.618) e Roma (1.652). «I cinesi? Potevano essere una risorsa e non lo sono. Anzi - si lamenta da Prato Riccardo Marini, vicepresidente dell’Unione industriali - Non rispettano le regole che noi siamo invece chiamati a rispettare. Quali? Le tasse, la nettezza urbana. Non agiscono nella legalità. Gli sforzi delle istituzioni per far rispettare le nostre regole? Vani». E racconta di quando discusse con l’ambasciatore americano Ronald Spogli del diverso rapporto che i cinesi hanno con gli States: «Lì la comunità cinese si è integrata perché rispetta la legge americana, le regole, persino la lingua. Qui mi trovi un cinese che parli e capisca l’italiano». Un handicap che non impedisce il fiorir degli affari. «Quanti soldi? Tanti - assicura Marini - Quando i cinesi arrivarono a Prato si compravano l’Ape della Piaggio e i pratesi giravano in Mercedes. Oggi i pratesi girano con l’Ape e i cinesi comprano la Porsche, l’Audi e la Bmw». La comunità cinese ha denaro? «Tanto. Ma per favore non mi chieda e non mi faccia pensare al colore che ha».
Il governo di Pechino, intanto, si fa sentire. Non per richiamare i connazionali al rispetto delle regole del Paese che li ospita, ma con una nota ufficiale del ministero degli Esteri con la quale «si augura» che l’Italia «risolva con equilibrio» i problemi. Nel frattempo a Shanghai la polizia arresta più di duecento persone che protestano davanti al Quotidiano della liberazione, il giornale locale del Partito comunista. In molti, riferisce il gruppo con sede negli Stati Uniti Human Rights in China, sono stati trattenuti dopo aver protestato per il trattamento subito. Manette anche per altri tre manifestanti arrestati in un gruppo di trenta persone che volevano semplicemente inoltrare una protesta in un ufficio governativo. Uno dei tre, Chen Suqin, sarebbe stato percosso fino a perdere coscienza ed è stato ricoverato in ospedale. Per nulla turbato, il ministro cinese guarda a Milano e sottolinea che ora la situazione «è calma».
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