Il Comandante Antonio Sulfàro, nato a Genova il 12 Marzo 1881 (del quale ricorre quest'anno il quarantesimo della morte) si trovava in piena tempesta, nell'Oceano Indiano, quando qui a Pegli, nel novembre del 1922, stava nascendo suo figlio; ma si era dimenticato di lasciar detto a sua moglie quale nome avrebbe desiderato per il nascituro. Per non sbagliare, la Sig.ra Sulfàro decise (allora, evidentemente, la legge lo permetteva) di far battezzare il bambino con lo stesso nome del padre. È per questo che l'Avv. Sulfàro, terzo genovese della stirpe, si chiama Antonio come suo padre (e come suo bisnonno, ultimo siciliano della famiglia). Capitan Sulfaro, diplomato sul finire dell'ottocento all'istituto nautico genovese (ancora «tecniconautico»), si trovò ad essere arruolato per il servizio militare - come marinaio semplice - nella Regia Marina, sezione «timoniere» (dove, a quel tempo, finivano i capitani di lungo corso, visto che le navi dovevano essere pilotate a mano da quelli che se ne intendevano) e, correndo gli anni 1904/905, ebbe in sorte d'essere imbarcato sull'incrociatore «Marco Polo», unica nave da guerra italiana inviata - come altre europee - a tutela delle nostre concessioni in Estremo Oriente durante la guerra russo-giapponese. Terminato il servizio militare (che, a quei tempi, in Marina, durava quattro o cinque anni) riprese l'attività professionale nella Marina Mercantile, ma subito scoppiò la guerra italo-turca, nella quale, richiamato e militarizzato, partecipò come ufficiale alle operazioni in Cirenaica e nell'isola di Rodi. Tornato alla «Mercantile», ebbe appena il tempo di fare tre o quattro imbarchi ed ecco che - scoppiata la Grande Guerra - si ritovò con le stellette.
L'anno successivo alla fine del conflitto (1919) accadde che il Tenente di Vascello Antonio Sulfàro si trovasse a colloquio con un altro capitano di chiara fama, Giuseppe Giulietti, indiscusso capo della «Federazione sindacale della Gente del Mare», intenti ad esaminare la posizione del piroscafo «Persia», nave interalleata di 8.000 tonnellate, attraccata a La Spezia ed in partenza per VIadivostok con un carico di 30.000 fucili mod. '91, 1.000 moschetti da cavalleria, 10 batterie da montagna «75/13», un'enorme quantità di munizioni appropriate e buffetterie militari per 30.000 uomini. II carico - nella risposta di Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio dei Ministri, ad un'interrogazione del deputato Musatti, era diventato stock di «vecchie casseruole e rottami di ferro» destinati alla Cina. Alla Federazione della Gente del Mare quell'operazione piaceva poco, ritenendo che il carico fosse destinato alle armate russe «bianche» ed il potente sindacato minacciava lo sciopero nazionale dei marittimi. Per contro, in Italia qualcun altro abbisognava impellentemente di armi e munizioni. Si trattava di Gabriele d'Annunzio, che - partito da Ronchi con i suoi legionari - aveva occupato Fiume.
La decisione fu presto presa. Giulietti aveva sottomano Umberto Poggi, personaggio di spicco nella Federazione, nonché Capitan Sulfàro, tenente di vascello della riserva, «marinaio con abbastanza fegato e sufficiente incoscienza» (come ebbe a scrivere Italo Sulliotti nel 1931 su «La Stampa della Sera», raccontando, in tre puntate, l'avventura del «Persia») il quale - per la cronaca - vent'anni dopo si sarebbe trovato sulla schiena anche la seconda guerra mondiale, nella qualità di capitano del Bacino di Carenaggio della Darsena di Genova. Dalla riunione con Giulietti scaturì un progetto pazzesco, temerario e salgariano: impadronirsi del «Persia» per portarlo a D'Annunzio, a Fiume, forzando il blocco del Quarnaro. Venne così costituito un «commando» (che allora non si chiamava ancora così) di quattro uomini: Sulfàro, Poggi, Tatozzi (marconista erculeo) e Guido Remedi, pronti a tutto e consapevoli che se la missione fosse fallita e loro catturati, sarebbero stati impiccati a bordo della nave catturatrice, a norma delle leggi internazionali, per pirateria.
Un primo tentativo di imbarco clandestino, a La Spezia, andò in fumo. Soltanto uno dei quattro, Remedi, riuscì ad imbarcarsi, informando poi gli altri che la nave avrebbe fatto scalo a Messina. Sulfàro (con la divisa militare e la pistola d'ordinanza in valigia) Poggi e Tatozzi raggiunsero così Messina in treno. Nella notte - complice un barcaiolo messinese, membro dell'onnipotente Federazione della Gente del Mare eludendo le ronde nautiche della Regia Marina e dei Reali Carabinieri, si arrampicarono sulla biscaglina calata da Guido Remedi e si nascosero nella sentina della nave, fra il carbone. Frattanto, da La Spezia a Messina, Remedi (sempre in nome del potente sindacato marittimo) era riuscito a portare dalla sua un certo numero di membri dell'equipaggio, fra i quali fuochisti e camerieri. Due di questi ultimi, in navigazione fra Messina e Porto Said, dopo aver servito la colazione agli ufficiali, chiusero a chiave e sbarrarono le porte della sala da pranzo.
Adesso, per immediatezza di rappresentazione, ci sia consentito passare all'indicativo presente. II Tenete di Vascello Sulfàro, indossata la divisa e pistola in pugno, irrompe in coperta seguito da un gruppo di fuochisti armati di pale, orrendamente neri di carbone e di sudore. Disarma il Maggiore d'Artiglieria responsabile del carico d'armi e vorrebbe lasciargli la sciabola, ma quello (ah, la cortesia «de' cavalieri antiqui») rifiuta dicendo: «Signore, non posso accettare; sarei costretto ad usarla contro di Lei, ufficiale della Marina italiana». Tatozzi frattanto si è preoccupato di stendere con un «uppercut» il marconista di bordo e procurare il silenzio radio. Non manca neppure una sequenza da film hollywoodiano: compare un'affascinante signora della nobiltà genovese, la Marchesa Durazzo, che si era imbarcata con destinazione Port Said e verso la quale i «corsari» saranno cortesissimi.
Intanto il «Persia» fa rotta su Fiume e in Adriatico (fortunatamente il radar non è ancora stato inventato) cacciatorpedinieri italiani, inglesi e francesi, danno la caccia alla nave scomparsa. Nel Golfo del Quarnaro, all'altezza di Abazia, un cacciatorpediniere inglese si para davanti al piroscafo ordinandogli di fermarsi. Capitan Sulfàro ordina «avanti tutta!» e mette la prua in rotta di collisione. All'ultimo momento il «caccia» si scansa e i «pirati» entrano nel porto di Fiume.
Gabriele d'Annunzio li accoglie al Palazzo della Reggenza e, abbracciando Sulfàro, declama: «Fratelli, è Iddio che vi manda!» Subito dopo invia a Giulietti (il quale, però, sta arrivando a Fiume via terra) questo telegramma: «Se tener duro è bene, assaltare è meglio».
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